La denuncia di Foad Aodi, presidente AMSI e UMEM: «Ginecologhe e pediatre somale, sudanesi, palestinesi e irachene discriminate a Vicenza, Verona e Padova»
Si sono scontrate contro un muro di gomma, scetticismo e diffidenza. E hanno dovuto arrendersi alla dura realtà: pazienti e familiari le rifiutano non perché non sappiano svolgere il proprio lavoro ma perché, oltre al camice bianco, portano il velo e lunghi e casti abiti.
Sono le testimonianze di alcune ginecologhe e pediatre somale, sudanesi, palestinesi e irachene di religione musulmana raccolte dall’Associazione medici di origine straniera (Amsi). Le dottoresse hanno lavorato per brevi periodi in Veneto, in centri medici privati, coprendo i capelli e parte del viso con un foulard o un velo. E di fronte alle lamentele di pazienti e familiari sono state allontanate dai direttori sanitari delle strutture con altre motivazioni. «Raccontano di aver ricevuto segnalazioni da parte di colleghi sul fatto che i pazienti si lamentassero del velo e del vestito lungo – precisa il professor Foad Aodi, presidente dell’Amsi e dell’Unione medica euro mediterranea (Umem) a Sanità Informazione – nonostante nella stessa struttura lavorassero alcune suore in abito religioso. Indossavano il camice sopra al vestito, ma i pazienti avevano ugualmente paura di essere visitati da dottoresse che avevano il viso scoperto e solo un fazzoletto a coprire il capo».
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Niente a che vedere con il burqa, l’abito che nasconde quasi completamente il viso ad accezione di un piccolo pezzo di stoffa che permette alla donna di vedere, o il niqab che copre il viso meno del burqa, lasciando una piccola area libera attorno agli occhi. Le dottoresse portavano una sorta di hijab, un velo che copre la testa e il collo, lasciando il viso completamente scoperto. Eppure, suscitavano timore e perplessità. «Secondo i colleghi – prosegue Foad Aodi – i malati, ai successivi controlli, chiedevano esplicitamente di essere controllati da medici italiani». Nessuna lamentela diretta ma le proteste e le rimostranze sono arrivate in segreteria e in direzione sanitaria e «nell’arco di due e tre mesi i direttori sanitari delle strutture private sono corsi ai ripari, non le hanno riconfermate accampando la scusa della mancanza di richieste. Si sono sentite mortificate dal punto di vista professionale – aggiunge il consigliere nazionale dell’Ordine dei Medici di Roma e membro Registro esperti FNOMCeO Aodi – perché non sono state giudicate in merito al lavoro che svolgono ma per un pregiudizio culturale, un muro mentale fatto di ignoranza e pregiudizi».
Un «atto di discriminazione» che si inserisce in un fenomeno più ampio e complesso di «intolleranza verso gli stranieri, alimentato dai social e da una comunicazione, anche politica, aggressiva e offensiva – conclude Foad Aodi – . Noi dell’Amsi rispettiamo tutte le forze politiche ma chiediamo a chi fa politica di essere responsabile e rappresentare un esempio positivo per tutti. Altrimenti, come già accade, sarà la società civile a pagarne le conseguenze».
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