Gli psichiatri i camici bianchi più colpiti, seguiti dai colleghi del pronto soccorso. Ma l’80% delle aggressioni non viene denunciato
Il Ddl aggressioni, nato per arginare la preoccupante escalation di violenza ai danni degli operatori sanitari, è in discussione alla Camera dei Deputati, già approvato dal Senato. Vista la discussione politica sul tema, l’Anaao Assomed ha deciso di lanciare una nuova survey destinata al personale medico, per dar voce agli addetti ai lavori. «L’analisi – spiega il sindacato – condotta da gennaio a febbraio 2020, ha interessato 2059 soggetti, con una responsività crescente con il progredire dell’età. Il 55,44% dei responders ha affermato di essere stato personalmente vittima di violenza, in valore assoluto 1137 medici rispetto agli 832 del 2018, nel 76,52% dei casi di carattere solamente verbale. I più colpiti dal fenomeno gli psichiatri: l’86% degli utenti dichiara di aver subito aggressioni, il 77% dei medici di medicina d’urgenza, il 60% dei chirurghi, il 54% dei medici del territorio, il 40% degli anestesisti».
LEGGI L’INDAGINE ANAAO ASSOMED
All’analisi hanno partecipato 19 regioni con picchi in Lombardia, Campania, Veneto; il 21% delle risposte proviene dalle regioni del sud e delle isole, mentre il 57% arriva dalle regioni del nord ed il 22% da quelle del centro. Questi dati dimostrano che «la violenza sugli operatori sanitari, per lungo tempo attribuita prevalentemente a regioni del sud Italia ed alle isole dove le situazioni socio-economiche e sanitarie sono più complesse, è ormai diventato fenomeno largamente diffuso su scala nazionale».
I PRINCIPALI NUMERI DELLE AGGRESSIONI
86% psichiatria
77% pronto soccorso emergenza-urgenza
60% chirurgia
54% medicina territoriale
40% anestesia e rianimazione
Ma il dato preoccupante è che il 79,26% degli operatori vittime di violenza non ha presentato denuncia e che il 66% dichiara di essere a conoscenza di episodi simili ai danni di operatori. Il 23% dei partecipanti afferma, inoltre, di essere venuto a conoscenza di casi da cui è scaturita invalidità permanente o decesso conseguenti ad episodi di violenza.
Un fenomeno, dunque, sottostimato e anche sottovalutato dagli addetti ai lavori: solo il 37%, infatti, risponde di conoscere le leggi attualmente vigenti in termini di prevenzione delle aggressioni, mentre il 50% non conosce nemmeno il protocollo della propria azienda.
Secondo il 40% di coloro che hanno risposto, la causa principale delle violenze è da individuare in fattori strutturali di natura socioculturale e per questo non sono sufficienti misure estemporanee per contrastare il problema. Contrastanti le opinioni sul ruolo degli operatori: un 40% indica un approccio non idoneo da parte del medico o dell’infermiere e un altro 43% nega che questo possa rappresentare un fattore scatenante.
Nel rintracciare le possibili soluzioni, il 75%, dei responders pensa all’introduzione della punibilità d’ufficio come deterrente ma il 47% chiede anche l’introduzione negli ospedali di posti di polizia. Tra le richieste, campagne di sensibilizzazione rivolte alla cittadinanza (44%) e maggiori investimenti in termini di personale (51%) e strutture.
«Il vuoto applicativo di norme pur esistenti nonostante le sollecitazioni continue da parte di sindacati ed istituzioni – precisa il sindacato – rende necessaria una maggiore consapevolezza del rischio da parte del management aziendale, che spesso lo sottostima o, peggio, lo ignora volutamente per non impegnare risorse nella sua prevenzione».
Inoltre, secondo l’Anaao Assomed, il sovraffollamento del Pronto Soccorso non aiuta: dalla survey risulta essere la struttura organizzativa più colpita dalle aggressioni verbali e fisiche, con percentuali insostenibili per chi vi lavora e alla radice del burnout di medici e infermieri.
«Occorre mutare velocemente – conclude l’Anaao Assomed – sia l’attuale organizzazione delle cure, soprattutto in emergenza urgenza, sia il paradigma dell’accettazione del paziente, umanizzando l’accesso alle cure prima e più che le cure stesse. Umanizzare vuol dire valorizzare figure professionali che fino ad oggi sono state poco e male coinvolte nei percorsi di cure, quali assistente sociale e psicologo, che possono diventare strumento di rassicurazione durante l’attesa».
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