Prima la gestione delle procedure sui pazienti, con il rischio di contagio, poi quella delle autopsie sui positivi, la medicina legale si è confrontata con la pandemia in maniera pronta. Di fronte al contenzioso ha reagito in aiuto dei professionisti sanitari
Organizzazione, chiarezza e strategia. Sono i tre elementi di cui il Sistema sanitario nazionale ha avuto più bisogno durante l’emergenza pandemica, che hanno posto al centro la dottrina della medicina legale. Prima per definire delle linee guida utili per affrontare la fase più complessa, poi per gestire il rischio clinico in ospedale e il contenzioso derivato da una situazione così difficile.
Senza l’intervento della dottrina non sarebbe stato facile contenere i disagi derivati dal trattamento di pazienti su cui la letteratura era inesistente. Ce lo spiega bene la professoressa Vilma Pinchi, ordinaria di Medicina legale all’Università degli studi di Firenze. «Quello che eravamo in grado di gestire al momento in cui si è scatenata la pandemia era molto limitato – racconta ai microfoni di Sanità Informazione -, non solo avevamo la necessità di ristrutturare e riprogrammare tutte le attività cliniche, per contenere il rischio di contagio all’interno delle strutture sanitarie, ma affrontavamo anche il rischio per i professionisti sanitari: che potessero contagiarsi, come è poi accaduto. In terzo luogo, c’erano tutte le questioni collegate con l’assenza di dispositivi di protezione».
Intercettiamo Pinchi durante il webinar “La gestione integrata del rischio clinico e del contenzioso“, organizzato dal provider ECM Sanità in-Formazione. La medicina legale si è divisa in questo periodo in tre impegni fondamentali, ci spiega, che hanno dato una vera direzione alla risposta della pandemia. «Un’attività clinica propria per il vivente, quindi le visite che hanno subìto un arresto prima e poi un forte rallentamento – continua – poi le azioni sul cadavere, in cui il problema era il rischio di contagio dell’operatore sanitario, che hanno subito un rallentamento anche se alcune autopsie giudiziali e riscontri diagnostici hanno dovuto comunque essere disposte». Proprio dalla medicina legale sono arrivate le primissime linee guida su come gestire le autopsie di paziente Covid-positivo.
L’altra funzione «è stata quella di aiutare strutture e professionisti sanitari nell’individuazione dei percorsi attenti a gestire il rischio di contagio e anche il rischio di contenzioso, perché a questo serve la medicina legale». L’aggiornamento delle procedure per la gestione degli spazi, dei pazienti in Pronto Soccorso e dei reparti Covid era necessaria per evitare casi di contenzioso, che però ci sono stati. «Richieste risarcitorie – specifica Pinchi – ad aziende o professionisti sanitari o perché si suppone che il soggetto abbia contratto il coronavirus in un ambito nosocomiale o perché il paziente che non era affetto da Covid-19, ma non è stato appropriatamente assistito perché il Ssn era sotto stress e non riusciva a provvedere le normali procedure».
Con i giuristi la medicina legale ha lavorato per calibrare le normative, aiutando a elaborare lo scuso penale di recente emanazione, che esclude la punibilità del professionista sanitario che abbia operato in condizioni di eccezionalità. «Sarebbe veramente inaccettabile per medici e professionisti sanitari che hanno dovuto operare mettendo a rischio la propria vita e la sicurezza propria e delle famiglie, in una situazione di carenza di dispositivi di protezione e di conoscenze scientifiche e procedure. Abbiamo fatto laureare prima gli infermieri per mandarli il più presto possibile sul campo: ragazzi di 22 anni andati a lavorare in un reparto Covid perché di questo avevamo necessità. Se poi dovessero anche rispondere secondo le regole della responsabilità ordinaria sarebbe veramente iniquo verso una categoria che ha pagato un prezzo enorme».
Secondo l’esperta c’è una certezza che anche la dottrina ha potuto capire: «Abbiamo imparato – conclude Pinchi – che forse i ranghi delle professioni sanitarie vanno irrobustiti e che non brilliamo per procedure messe a punto in tempo di pace, è un sistema che va ripensato a tutela del cittadino e di tutto il sistema sanitario».
Presente al webinar a mostrare l’altro volto della complessa questione del contenzioso, c’era Giancarlo De Cataldo, giudice della corte d’assise di Roma e scrittore. «La prima cosa da cui partire è – esordisce ai nostri microfoni – che l’azione penale in Italia è obbligatoria, quindi davanti a una notitia criminis quando questa coinvolga anche una professione sanitaria è indispensabile per il Pubblico ministero procedere. Non si può dire “a naso questa denuncia non ha senso”, bisogna comunque procedere e questo comporta, per lo sviluppo di accertamenti irripetibili, anche l’invio di avviso di garanzia per apertura di indagine».
«C’è da valutare – prosegue – anche l’elevata litigiosità: c’è una grande mole di cause che vengono mosse contro i medici e la stragrande maggioranza poi si conclude con un nulla di fatto, perché in realtà poi la colpa non c’è. C’è una scelta terapeutica o l’ineluttabile tragicità del destino. Il che non vuol dire che non esistano casi di malasanità, ma che il tempo dell’accertamento della giustizia purtroppo è un tempo meno rapido e più complicato di quello di una fiction o di quello che un professionista che si trovi sotto scacco sente come tempo dell’ingiustizia, se non ha commesso nessun reato. Ma questo credo che allo stato attuale della legislazione non sia emendabile».
«Credo – conclude – che la giurisprudenza abbia sempre cercato di mantenere un giusto e corretto equilibrio delle professioni sanitarie riconoscendone l’estrema difficoltà tecnica. Quello che posso dire dal mio punto di vista è che io ho sempre cercato di prestare estrema attenzione al fattore tecnico causale: cioè di avere una sicurezza della scienza nelle materie di cui mi sono trovato ad occuparmi. Affidandomi a un sapere che non è esclusivamente giuridico, ma che è e deve essere scientifico».
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