Il presidente dell’Ordine dei Medici di Napoli appoggia la proposta di legge che fa scattare la denuncia automatica in caso di violenza. E vede rischi per il futuro della professione: «Se il figlio di un dottore vede la sofferenza di un padre quando penserà di seguire le orme?»
Il tema delle aggressioni al personale medico e sanitario continua a tenere banco nel dibattito politico. Negli ultimi tempi non sono mancati episodi anche molto gravi, come l’aggressione ad un anestesista di Crotone o quella ad alcuni infermieri intenti ad effettuare un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) a Tivoli. Sul fronte si muove anche la politica con il Disegno di legge del ministro della Salute Giulia Grillo o quello presentato dalla parlamentare LEU Michela Rostan per equiparare il medico al pubblico ufficiale, una richiesta molto sentita dalla categoria medica. Tra i promotori di questo Disegno di legge anche il presidente della Fimmg e dell’Ordine dei Medici di Napoli Silvestro Scotti che a Sanità Informazione sottolinea: «Con questa Proposta di legge la denuncia, in caso di aggressione, diventerebbe automatica e porterà formalmente al venire fuori di tutto quello che in questo momento è nascosto. È importante che il cittadino sappia e abbia coscienza che lo Stato abbia riconosciuto il medico come suo servitore che in quel momento nell’esercizio di una funzione è a garanzia della popolazione».
Presidente Scotti, è stata presentata una Proposta di legge per equiparare il medico al pubblico ufficiale e far scattare la denuncia in modo automatico in caso di aggressione. Lei però ha detto che si stanno scoraggiando i medici a fare questo lavoro, mentre tempo fa era diverso. Cosa si può fare per invertire la tendenza?
«Questo è sicuramente un primo passo se fosse realizzato. Il medico è un soggetto che in questo Paese almeno fino ad adesso si sente parte di un servizio pubblico, si sente parte di un sistema di pubblica utilità. Si sente lui stesso un soggetto pubblico, quindi disponibile a richiesta del paziente sulla base del codice deontologico ma anche sulla base della funzione costituzionale dell’articolo 32 che ci porta all’assistenza e alla tutela della salute nei confronti di chiunque calpesti il territorio di questo Paese. Il medico non si chiede chi è il paziente che ha di fronte, né sesso, religione, stato sociale, stato penale o quello che sia, cura e basta. Per questo tipo di ragione oggi appare paradossale che nell’ambito di quelle che sono le mie attività se io faccio un errore come esercente pubblico servizio sono riconosciuto con le aggravanti, come è giusto che sia, di pubblico ufficiale, mentre nel momento in cui vengo aggredito rimango un comune cittadino che deve fare querela di parte. I medici si sono scoraggiati, non denunciano. Questo ha riflessi importanti. Se un figlio di un medico vede la sofferenza di un padre quando penserà di seguire quelle orme? Se un giovane legge tutti i giorni sul giornale le aggressioni fatte a questa professione, che considerazione diamo alla società civile, alla popolazione, di questo ruolo professionale? Un ruolo professionale da abbandonare, da rifuggire o da portare semplicemente in aree più protette, tant’è che noi non troviamo più chirurghi, non troviamo più soggetti disponibili all’emergenza, non troviamo più soggetti che entrano nelle parti più calde del servizio pubblico che però sono la base essenziale dell’assistenza».
Perché aumentare le pene non è sufficiente per risolvere questo problema?
«Bisognerebbe predisporre che si aumentino le denunce, perché le pene sono successive alle denunce, non antecedenti. In questo caso il provvedimento prevede soprattutto il discorso della procedura d’ufficio: la denuncia è automatica e porterà formalmente al venire fuori di tutto quello che in questo momento è nascosto, di tutto quello che non viene formalizzato. A me interessa che il cittadino sappia e abbia coscienza che lo Stato abbia riconosciuto il medico come suo servitore in quel momento, nell’esercizio di una funzione che è a garanzia della popolazione. Se lo Stato non mi sa riconoscere in questo senso io di chi sono servitore?».
Non pensa però che la qualifica di pubblico ufficiale comporti un onere in più per il medico?
«Beh innanzitutto questi oneri sono già presenti perché tutta la giurisprudenza ci equipara a incaricati di pubblico servizio e quindi in sede di quella che può essere la parte ‘aumentante’ il livello di responsabilità è formalmente già consolidata dalla giurisprudenza. Quando un medico viene condannato perché ha omesso un atto si parla già di omissione di atti d’ufficio con l’aggravante di incaricato di pubblico servizio. Le faccio l’esempio di una delle categorie più colpite dalle aggressioni, i medici di guardia medica. Difficilmente vengono condannati per omicidio colposo o altre cose, ma se lei va a verificare sono tutti condannati per omissione d’atti d’ufficio perché magari non hanno registrato sul registro di guardia l’intervento: e scatta l’aggravante di essere un pubblico ufficiale. Le pare normale che io in quel caso ricevo un trattamento di questo tipo su una procedura per carità corretta perché ha valore certificativo ma di fatto burocratica mentre quando c’è una situazione penale io medico sono un comune cittadino e quindi non sono difeso per come sono stato attaccato nella mia responsabilità? Io sono sempre convinto che i medici non debbano mai rifiutare l’amplificazione del loro ruolo e che l’amplificazione del ruolo corrisponda a pari responsabilità. Rifiutare e rifuggire le responsabilità che derivano da un provvedimento come questo rappresenterebbe una diminutio per il ruolo medico».
LEGGI ANCHE: AGGRESSIONI AI MEDICI, SCOTTI (OMCeO NAPOLI): «SONO CAUSATE DA POLITICA ANTI-SISTEMA E CATTIVA COMUNICAZIONE»