La direttrice: «L’apertura è stata graduale, ora ogni paziente può ricevere due visite a settimana. Una scelta dalla quale hanno tratto beneficio non solo i pazienti e i loro familiari, ma anche i medici e il personale sanitario sgravati da un enorme carico emotivo»
Il Covid l’ha portato via. Ma non prima di rivedere gli occhi di sua figlia. Giuseppe (il nome è di fantasia) è stato il primo paziente dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma a ricevere la visita di una persona cara. Il reparto di Terapia Intensiva Covid dell’azienda ospedaliero-universitaria della Capitale è stato uno dei pochi d’Italia che, nel pieno della seconda ondata, ha deciso di riaprire le porte ai parenti dei malati.
«Lo abbiamo fatto con cautela e, non lo nascondo, anche con un certo timore – racconta Monica Rocco, direttrice della terapia intensiva dell’Ospedale Sant’Andrea e docente di Anestesia e Rianimazione all’università La Sapienza di Roma -. Ma quando abbiamo assistito al primo incontro, tra padre e figlia, abbiamo avuto la certezza di aver fatto la scelta giusta».
Oggi, a quasi sei mesi di distanza da quel primo incontro, non c’è nulla che potrebbe spingere la professoressa Rocco a fare un passo indietro: «Così come durante la prima ondata, grazie ad un uso attento dei dispositivi di protezione individuale ed al rispetto preciso dei protocolli, nessun medico o professionista sanitario ha contratto l’infezione intraospedaliera, allo stesso modo – sottolinea l’anestesista – nessuno dei parenti dei pazienti si è infettato a seguito delle visite presso i nostri reparti».
L’apertura è stata graduale. «Durante le prime settimane ho selezionato personalmente i perenti idonei, tra i componenti più giovani della famiglia o tra coloro che avevano già contratto il virus. Poi, pian piano – continua la direttrice della terapia intensiva -, osservando l’impeccabile comportamento dei visitatori, è stato deciso di concedere l’ingresso anche agli altri familiari».
I visitatori, prima del loro ingresso nel reparto, sono accolti da personale specializzato. «Istruiamo personalmente i parenti dei nostri pazienti all’utilizzo dei DPI e al rispetto delle regole interne, dalla distanza da tenere al divieto di toccare persone ed oggetti. È sempre il personale della terapia intensiva ad organizzare e monitorare gli incontri, scadenzati nel corso della settimana, in modo che ogni paziente possa ricevere una o due visite. Durante gli altri giorni il contatto con i familiari è garantito attraverso chiamate e videochiamate».
Una scelta dalla quale hanno tratto beneficio non solo i pazienti e i loro familiari, ma anche i medici e il personale sanitario che, durante l’emergenza, oltre al carico di lavoro, sono stati gravati da un enorme impegno emotivo. «Fin dalla prima ondata – spiega Rocco – abbiamo sempre mantenuto un costante rapporto con i parenti dei nostri pazienti, attraverso una telefonata quotidiana. Colloqui intensi in cui, inevitabilmente, era necessario far fronte ad emozione, commozione ed anche disperazione. Permettere a queste persone, invece, di vedere con i loro occhi i propri cari, il modo in cui i medici e il personale sanitario se ne prende costantemente cura, ci ha sollevato da un incarico, certamente doveroso ed indispensabile, ma dalla difficile gestione emotiva».
Che l’apertura dei reparti di terapia intensiva alle visite dei parenti sia una componente necessaria del protocollo di cura è, ormai, da molti anni, opinione condivisa. Tanto che la Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva ha istituito una commissione di esperti che si dedica all’etica ed agli aspetti psicologici di pazienti e familiari, promuovendo l’apertura dei reparti.
«Questo incontro diretto – spiega Rocco – crea un’alleanza terapeutica tra i medici e la famiglia, fondamentale per la riuscita delle cure. In terapia intensiva entrano persone spesso sanissime fino a pochi minuti prima, vittime di incidenti stradali o sottoposti ad importanti interventi chirurgici. E come loro, anche i pazienti Covid sono diventati “orfani” da un momento all’altro, ritrovandosi improvvisamente nella solitudine più estrema».
I pazienti dimessi vengono sottoposti a regolari follow-up attraverso una visita generale, tac, radiografie, controlli cardiologici, ma anche colloqui psicologici. «La maggior parte – dice la direttrice – descrive la situazione vissuta come dolorosa dal punto di vista fisico ed estremamente pesante sul versante psicologico. Ma tutti coloro che hanno potuto ricevere le visite dei propri cari, nessuno escluso, racconta, con gli occhi colmi di lacrime, l’emozione vissuta».
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