Su Sanità Informazione la storia del dottor M. Lui e tre colleghi rischiano di dover pagare di tasca propria un totale di 250mila euro. L’Avvocato Gangemi (C&P): «I medici dell’equipe non sono stati neanche interpellati per chiedergli cosa fosse successo»
E per fortuna che il processo è durato tutto sommato poco tempo (quello contabile è più snello rispetto agli altri tipi di giudizi) ma avere per quattro anni il timore che i giudici possano condannare un professionista al risarcimento di diverse centinaia di migliaia di euro è tutt’altro che facile. È quanto accaduto al dottor M., cardiochirurgo che opera nel Nord Italia, il quale ha ricevuto da un giorno all’altro la richiesta di pagare, in solido con due colleghi e un dirigente dell’azienda sanitaria, circa 250mila euro per un presunto episodio di malpractice.
Diciamo presunto perché la sua azienda, in seguito ad una richiesta di risarcimento da parte di un paziente, ha pagato sull’unghia una somma pari a 300mila euro (solo in minima parte coperta dall’assicurazione, il resto pagato da un fondo creato dalle strutture ospedaliere regionali) senza, come ricostruiscono il medico e il suo avvocato, chiedere spiegazione ai diretti interessati e senza aspettare la Ctu (Consulenza tecnica d’ufficio).
I protagonisti della vicenda sono il dottor M. e il paziente che poi, in seguito a complicazioni, chiederà un risarcimento, anche se nel giudizio sono stati coinvolti anche due colleghi e un dirigente dell’azienda sanitaria. Tutto nasce con una diagnosi fatta dal dottor M. ad un paziente che soffriva di un problema serio a una valvola cardiaca. Le alternative erano due: riparare la valvola o sostituirla. Apparsa fin da subito improbabile la possibilità di ripararla, durante l’intervento si è deciso definitivamente di sostituirla. Altra scelta da fare: protesi meccanica o bioprotesi? La prima dura di più ma necessita dell’assunzione di un anticoagulante a vita; la seconda dura di meno ma non prevede l’assunzione dell’anticoagulante. Il paziente ha optato per la seconda scelta.
«Ho operato il paziente in mininvasiva – spiega il dottor M. a Sanità Informazione – ma durante l’intervento di sostituzione della valvola c’è stato un problema di sanguinamento di cui non siamo mai riusciti a determinare l’origine. Abbiamo portato il paziente in terapia intensiva e dopo poche ore ha ricominciato a sanguinare. Da qui siamo tornati in sala operatoria, dove ho dovuto convertire l’intervento da mininvasivo ad uno ad invasività classica. Ho chiamato anche il chirurgo toracico reperibile quella notte per aiutarmi a capire se il sangue provenisse dall’ilo polmonare, ma ha confermato che non c’era sanguinamento originato da quell’area. Il paziente poi è stato politrasfuso, ha avuto una prolungata degenza in terapia intensiva in ventilazione meccanica e dopo 15 giorni è stato trasferito in riabilitazione, per essere poi dimesso una volta riacquisita la capacità respiratoria normale».
Questo succedeva nel 2017. Dopo circa sette mesi, in estate, il paziente subisce un’infezione alle vie urinarie che, mal curata, causa una endocardite: «Un’infezione – spiega il medico – con vegetazione sulla valvola. Viene sottoposto ad asportazione di queste vegetazioni che staccatesi, in parte, avevano embolizzato agli arti inferiori. Dopo qualche mese viene rioperato perché la valvola era stata danneggiata dall’infezione e gli viene impiantata una protesi meccanica».
Dopo un anno il paziente chiede il risarcimento danni per una serie di effetti collaterali dovuti, a suo dire, alle complicanze dell’intervento: «È stata avviata una procedura, ai sensi della Legge Gelli-Bianco, per l’Accertamento tecnico preventivo – spiega a Sanità Informazione l’avvocato Andrea Gangemi, dello studio Macchi di Cellere Gangemi che si occupa di questo tipo di casi in collaborazione con Consulcesi&Partners – nei confronti della sola azienda ospedaliera e l’azienda si è costituita nella procedura difendendosi a tutto campo, sostenendo anche che non si ravvisavano problemi o vizi nell’intervento chirurgico effettuato. Fin qui, tutto normale. Dopodiché, sorprendentemente, un paio di giorni prima dell’inizio delle operazioni peritali da parte dei Ctu nominati dal giudice, le parti hanno raggiunto un accordo transattivo di circa 300mila euro. Dico sorprendentemente perché la decisione di pagare questi soldi senza neanche aspettare l’esito dell’Accertamento tecnico preventivo contraddice l’iniziale criterio di difesa. E i medici dell’equipe non sono stati neanche interpellati per chiedergli cosa fosse successo». Terzo motivo per ritenere sorprendente questa decisione «è il fatto che il pagamento è avvenuto prima ancora che iniziassero le attività peritali. Di solito si aspetta almeno che si dia avvio alle operazioni peritali, anche perché già in quella fase i Ctu possono fare una proposta conciliativa».
Prima ancora che venissero finalmente coinvolti i medici, il Pm richiede una consulenza medica al Ministero della Salute: «Il perito – spiega l’avvocato Gangemi – ha consegnato una relazione, che poi è stata alla base dell’azione di responsabilità, davvero singolare ed estremamente generica. Ad esempio, ritorna più volte su un evidente errore di battitura presente in una relazione del medico».
Sulla base del ricorso per l’accertamento tecnico preventivo e di questa relazione il Pm ha dunque avviato l’azione di responsabilità in cui erano coinvolti sia il dottor M. che gli altri due medici presenti al momento dell’operazione (ma che, comunque, avevano avuto un coinvolgimento minimo). «I medici si sono costituiti – spiega l’avvocato –, abbiamo chiesto di essere ascoltati e siamo stati ascoltati. Pensavamo di aver chiarito e confidavamo in un’archiviazione. Il Pm ha però notificato la citazione in giudizio. E dunque siamo andati in giudizio, ci siamo costituiti e a quel punto il collegio ci ha ascoltato. C’è stata l’udienza e, all’esito di quest’ultima, sono state accolte le nostre principali eccezioni: la relazione ministeriale era generica, non c’era un chiaro nesso di causalità tra la condotta dei medici e gli asseriti danni e, soprattutto, anche prima della Legge Gelli-Bianco (che prevede espressamente che se il medico non è coinvolto direttamente nella transazione, questa non gli può essere imposta) la giurisprudenza contabile ha più volte affermato che la transazione sia inopponibile al medico laddove quella si presenti manifestamente illogica o antieconomica».
«Noi speravamo che il tutto venisse archiviato nella fase dell’invito a dedurre – spiega il dottor M. – ma poi siamo stati citati in giudizio e abbiamo depositato la nostra memoria difensiva, che l’avvocato ha predisposto discutendo a lungo insieme a me. Il Pubblico ministero ha presentato le sue accuse ma poi, con mio sollievo, i giudici hanno deciso in nostro favore dopo 20 giorni».
Ricapitolando: i medici coinvolti avrebbero saputo a cose fatte della richiesta di risarcimento da parte della Corte dei Conti, non sarebbero stati interpellati prima per dar conto del loro operato e l’azienda avrebbe pagato senza neanche aspettare i risultati della Ctu. La sentenza, come detto, ha dato ragione ai medici e il rischio di dover pagare una somma di denaro così ingente era d’improvviso sparita. O, almeno, così sembrava. Pochi giorni fa, infatti, la sentenza è stata impugnata. La spada di Damocle pende ancora sulle loro teste.
«Faccio questo mestiere da più di vent’anni – confida il cardiochirurgo – e ho migliaia di interventi alle spalle ma mai mi era successa una cosa del genere. Non ho vissuto la cosa con serenità, ovviamente, anche se avevo la consapevolezza di non aver arrecato né con colpa né tanto meno con dolo un danno al paziente. Il quale, tra l’altro, mi risulta che stia bene. Cosa significa essere consapevole di rischiare di dover pagare così tanti soldi? Emotivamente molto stressante anche se ho la coscienza pulita. L’eventualità diventa un pensiero ricorrente e si fa di tutto per continuare a lavorare il meglio possibile».
I rischi per i professionisti della sanità sono sempre dietro l’angolo: «Alcuni miei colleghi hanno subito situazioni ancora più gravi. Un mio ex compagno di università, ad esempio, al termine della specializzazione è stato raggiunto da due avvisi di garanzia anche se aveva fatto, come si dice in gergo chirurgico, il “terzo” dell’equipe medica, ovvero senza aver partecipato direttamente all’intervento. Purtroppo la nostra è una categoria soggetta a questo tipo di episodi». E alla domanda «ma lei se lo aspettava, quando andava all’università, che avrebbe incontrato questo tipo di difficoltà nel corso della sua carriera?», il dottor M. risponde: «Assolutamente no. Quando ho iniziato a studiare non pensavo fosse così. All’epoca era molto diverso».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato