Ai microfoni di Sanità Informazione, il Segretario Generale Antonio Magi spiega qual è la strada da percorrere e cosa deve cambiare per rafforzare il sistema salute italiano: «È servita una pandemia per ragionare sui cambiamenti ma non vorrei che proprio dopo una pandemia ci dovessimo ritrovare senza un Servizio sanitario nazionale»
Dalla riorganizzazione del Servizio sanitario nazionale al ruolo delle donne nel suo interno, dai “contributi Covid” non ricevuti dagli specialisti ambulatoriali al PNRR. Il Segretario generale Sumai-Assoprof, Antonio Magi, è intervenuto nel corso del 53esimo Congresso nazionale “Sumai protagonista nei CambiaMenti” mostrando all’intera platea (composta dei principali esponenti della sanità italiana, compresi il Ministro della Salute Roberto Speranza e il Presidente della FNOMCeO Filippo Anelli) la sua visione di sanità. O, meglio, come secondo Sumai deve evolvere tutto il settore per far tesoro di quanto appreso non solo in questo periodo di pandemia ma anche negli ultimi anni, con i cambiamenti in termini di esigenze di salute da parte della popolazione. Ai microfoni di Sanità Informazione, il Segretario Magi prova a sintetizzare i punti fondamentali del suo discorso.
«Devono cambiare essenzialmente due cose: primo, l’organizzazione del Servizio sanitario nazionale. Da singoli operatori bisogna cominciare a pensare di lavorare insieme in équipe. È una proposta che abbiamo fatto nel 2019, durante l’ultimo congresso in presenza prima della pandemia, e che non è stato possibile realizzare proprio a causa del Covid-19. Questa proposta è però entrata in maniera molto prepotente in campo, tant’è che anche il PNRR ne ha attinto nel decreto n.71 che è in scrittura proprio in questo periodo. L’altro aspetto che va cambiato è la mentalità. Per arrivare ad una sanità che sia davvero al servizio di tutti i cittadini in maniera uguale, e quindi non come sta avvenendo in questo periodo, bisogna cambiare il pensiero di tutti. Per questo, dobbiamo fare tutti un passo indietro, sia noi che la parte pubblica, e quindi Regioni e Governo.
Dobbiamo sederci tutti intorno ad un tavolo e cominciare a ragionale su come organizzare realmente questo Servizio sanitario nazionale. La nostra paura, come detto anche in una parte della nostra relazione di oggi, è legata anche al fatto che, così come è scritto il Pnrr, non prevede alcuna risorsa per i medici. Tant’è vero che si parla di interventi esterni al Piano con cui poter trovare le risorse, aumentando l’ampiezza del fondo sanitario. La cosa ci preoccupa molto perché possiamo pure costruire tante belle Case della salute, comprare tante belle apparecchiature e creare un meccanismo di telemedicina, ma poi chi c’è dietro? Chi lavora? Se non ci sono i medici (che tra l’altro nel 2027, anno in cui si prevede il completamento di questa operazione, per più della metà saranno in pensione) diventa un grave problema».
«La nostra paura è che si stia andando incontro ad una privatizzazione molto importante, abbandonando quel sistema sanitario pubblico che ci ha salvato dal Covid-19. Durante la mia relazione ho ricordato che se non ci fosse stato il nostro Servizio sanitario nazionale chi avrebbe mai curato i pazienti negli ospedali e nei reparti di terapia intensiva in maniera gratuita? I cittadini che si sono ammalati e sono stati curati non hanno pagato nulla. In altri Paesi, sia europei che extraeuropei, in cui il Servizio sanitario nazionale universalistico non c’è, dopo aver avuto il Covid molte persone oggi si ritrovano anche con debiti enormi perché devono pagarsi le cure. Ritengo che, se davvero si è intenzionati a fare questa riforma, la specialistica ambulatoriale è essenziale e centrale nell’organizzazione di queste équipe. Dobbiamo creare squadre che riescano a seguire tutti i pazienti sul territorio, formate da medici e operatori sanitari che possano prendere in carico questi pazienti e curarli ambulatorialmente, dove lavorano e dove vivono, cercando di evitare il ricovero. L’ospedale deve fare la sua parte, invece, per quanto riguarda le acuzie. Parliamo dunque di due lavori distinti e separati ma che devono integrarsi e i professionisti che ne fanno parte devono collaborare l’uno con l’altro. Questo è, secondo noi, dove deve arrivare il progetto. Speriamo che la politica lo capisca. C’è voluta una pandemia per cominciare a ragionarne però non vorrei che proprio dopo una pandemia ci dovessimo ritrovare senza un Servizio sanitario nazionale…».
«È successo innanzitutto che durante la pandemia sono state emanate diverse leggi che prevedevano contributi ai colleghi che lavoravano all’interno degli ospedali nei reparti Covid. I medici sono dunque stati “premiati” per il loro sforzo e hanno ricevuto risorse economiche aggiuntive. E invece a noi, che abbiamo fatto lo stesso lavoro, solo perché non siamo dipendenti ma in convenzione, questi contributi sono stati negati, in quanto la legge non faceva riferimento a tutti i lavoratori ma solo ai dipendenti. Si tratta di un fatto molto grave. Tutti i professionisti che svolgono lo stesso lavoro sono uguali e vanno trattati nello stesso modo, così come la Costituzione prevede.
Per quanto riguarda, invece, la retribuzione, naturalmente bisogna creare un Ssn attrattivo ma non soltanto dal punto di vista retributivo ma anche da quello delle modalità di lavoro. Nel mio intervento ho ricordato che stiamo vivendo anche una “femminilizzazione” della medicina, in quanto è molto aumentato il numero di donne che lavorano in medicina rispetto agli uomini. È necessario dunque organizzare questo sistema sanitario anche ad immagine della donna, in modo da permetterle di organizzare la sua vita al meglio, anche dal punto di vista familiare. La specialistica ambulatoriale è un settore che, a livello contrattuale, piace molto alle donne, tant’è vero che si tratta dell’unica categoria in cui, in questo momento, si sta verificando un’inversione: ci sono molte più donne che uomini proprio perché la vedono come una professione più flessibile e adattabile alle loro necessità».
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