Il segretario generale della Federazione italiana medici di medicina generale sulla riforma dell’assistenza territoriale: «Case di comunità non funzionerebbero in grandi città e aree poco popolate. Progetto previsto da PNRR va integrato con ambulatori di mmg che operino in microteam»
«Se i medici di Medicina Generale diventassero dipendenti io, Silvestro Scotti, smetterò di fare il medico. L’autonomia professionale non può coincidere con un ruolo subordinato». Così, senza giri di parole, il segretario nazionale della Federazione italiana medici di medicina generale, in questi giorni riunita in Congresso a Villasimius, in Sardegna, dice la sua sull’ipotesi del passaggio alla dipendenza dei MMG.
«Noi siamo dipendenti dalla Convenzione, se non sanno usare la Convenzione è un problema loro», dice ai nostri microfoni. Dove per loro intende le Regioni: «Io per i tamponi ho firmato un accordo nazionale che ne rendeva obbligatoria l’esecuzione da parte dei medici di famiglia, poi le Regioni hanno sottoscritto accordi diversi che hanno creato il caos. Non si può certo dare a noi la colpa se, durante l’emergenza sanitaria, qualcosa non ha funzionato».
«I sondaggi parlano chiaro – prosegue -. La maggior parte dei cittadini si dice soddisfatta del rapporto instaurato con il proprio medico di famiglia e dell’assistenza offerta anche durante la pandemia. E oltre due cittadini su tre non sanno nulla dei progetti di modifica della medicina territoriale che si stanno discutendo. Se si dovesse continuare su questa strada, noi medici di famiglia parleremo con la popolazione e vedremo quali risposte darà la politica. Perché è vero che le Istituzioni hanno fatto delle promesse all’Europa con il Piano nazionale di ripresa e resilienza, e se c’è la possibilità di un confronto siamo pronti a fare la nostra parte affinché queste promesse vengano mantenute; ma hanno anche promesso alla cittadinanza un rafforzamento dell’assistenza territoriale, che non è realizzabile con questo sistema».
Diverse le perplessità di Scotti in merito alla dipendenza e sull’organizzazione dell’assistenza territoriale al momento prevista: «Intanto il dipendente dipende da un sistema centralizzato che tende a deprimere, se non a far scomparire, il rapporto fiduciario con il cittadino ed il sistema di scelta del proprio medico di famiglia. E poi andrà chiarito il valore decisionale del professionista».
«Per quanto riguarda la previsione di Ospedali e Case di Comunità – prosegue – non riteniamo sia adatta per tutto il Paese: ci sono aree in cui può funzionare bene e altre, come le zone scarsamente popolate e le grandi metropoli, in cui si rischia di non risolvere la questione. Nelle prime – spiega Scotti – il medico di medicina generale si allontanerà dai propri assistiti; nelle seconde sarà difficile competere con l’offerta ospedaliera già esistente: chi avrà un problema continuerà ad andare in pronto soccorso, dove si offre anche la possibilità di eseguire una TAC, e non nella Casa di Comunità dove si potranno solo visitare i pazienti e al limite fare un prelievo, quindi la giustificazione di liberare gli ospedali è solo una scusa».
«Le Case di Comunità possono anche andare bene – aggiunge il segretario Fimmg – ma non se sono l’unico presidio di assistenza sul territorio. Ecco perché noi proponiamo di integrare l’attuale organizzazione di studi professionali con queste strutture, creando una sorta di binomio hub e spoke: nei primi si dovrebbe offrire un’assistenza di livello pre-ospedaliero, altrimenti non hanno senso; i secondi sarebbero invece gli ambulatori in cui lavorare in micro-team, garantendo prossimità e rapporto di fiducia al paziente».
Non buttare via il bambino con l’acqua sporca, quindi, secondo Scotti, ma migliorare la situazione esistente: «Ci sono sicuramente aspetti da migliorare e stiamo lavorando per capire come, perché tutti i cittadini hanno diritto ad avere la migliore assistenza possibile, ma i sondaggi ci rivelano cose del tutto opposte rispetto a quanto dichiarato dalle Istituzioni. Non si può sicuramente dire che le cose durante la pandemia non hanno funzionato solo per colpa nostra. Noi abbiamo continuato ad assistere i nostri pazienti anche nei mesi più difficili dell’emergenza sanitaria nei limiti degli strumenti che avevamo. Ci troviamo di fatto in una situazione in cui il palazzo sembra lontano dalla piazza».
Una proposta, quella della Fimmg, che nel pomeriggio ha ottenuto l’endorsement del sottosegretario alla Salute Andrea Costa, intervenuto al Congresso: «La vostra presenza sul territorio deve essere l’ossatura della sanità del futuro. Guai a pensare che queste strutture possano sostituire la vostra presenza sul territorio».
Quindi, una riflessione sul futuro della formazione degli aspiranti medici di Medicina generale: la trasformazione del corso di formazione in specializzazione universitaria, proposta e auspicata da molti, non convince Scotti. «Iniziassero a prevedere le borse di formazione prima di pensare a cambiamenti, visto che il bando per il corso di quest’anno deve ancora uscire – inizia -. Poi abbiamo visto l’esperienza del passaggio della branca dell’emergenza a corso di specializzazione, e non mi pare che ora il sistema dell’urgenza e del 118 funzionino. Si allungherebbe di almeno un anno il periodo di formazione, ritardando quindi ulteriormente gli ingressi dei giovani medici di famiglia nel sistema, quando i numeri della carenza attuale, e soprattutto prevista per i prossimi anni, sono sotto gli occhi di tutti. Perderemmo i risultati ottenuti con il Dl Calabria, che consente ai medici in formazione di poter assistere un numero minimo di pazienti. Durante il corso di laurea, inoltre, le cure primarie non vengono di fatto affrontate, sintomo di poco interesse dell’accademia nei confronti di questo settore. Insomma, se dovessero veramente decidere di trasformare il corso di formazione in specializzazione sarebbe un ulteriore segnale della volontà di eliminare le cure primarie».
Infine, l’avvio della campagna vaccinale antinfluenzale: «La medicina generale è pronta, ma tutto dipende dalle forniture, che più saranno tardive e più avranno impatto sulla campagna – dice Scotti, spiegando che ad oggi solo i medici di famiglia di Lazio e Campania sono partiti con le vaccinazioni -. Mi aspetto un’adesione alta, simile a quella dell’anno scorso, se verrà confermato lo stesso numero di dosi e se si informano e rassicurano i pazienti sulla doppia vaccinazione».
La paura infatti è che i pazienti temano gli effetti della co-somministrazione della terza dose di vaccino anti-Covid e dell’antinfluenzale: «Un esempio lampante di quanto sia fondamentale il rapporto fiduciario dei medici di famiglia con i loro pazienti per informarli sulla sicurezza del doppio vaccino. Sicuramente lo stesso risultato non si otterrebbe nei grandi hub. Anche perché – aggiunge Scotti – noi siamo abituati alla doppia somministrazione, visto che ogni anno facciamo antinfluenzale e antipneumococcica. Però per esempio dovrebbero spiegarci se è possibile somministrare contemporaneamente terza dose, antinfluenzale e antipneumococcica o, in caso contrario, a quale dare la preferenza. Inoltre andrebbe modificato il consenso informato nella parte in cui si chiede se sono state fatte vaccinazioni nelle ultime quattro settimane. E infine – aggiunge Scotti – considerato che le prime forniture di vaccino antinfluenzale sono somministrabili solo negli over 65, cosa facciamo con i fragili più giovani che hanno diritto alla terza dose?». Insomma, le questioni aperte sono tante. Alcune di queste verranno affrontate domani, quando è previsto l’intervento del ministro della Salute Roberto Speranza.
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