Intervista alla docente di Comunicazione e relazione in medicina. La rivista Nature: «Si è aperto un nuovo canale fra clinico e pubblico, va conservato»
Sono tanti gli aspetti riguardo i quali l’epidemia da coronavirus rappresenterà un cambio di paradigma probabilmente definitivo: fra questi c’è di certo la comunicazione fra mondo medico e opinione pubblica e anche fra medico e paziente. Un intervento sull’autorevole Nature fa notare che «la consapevolezza pubblica sui temi della ricerca medica sta decollando, gli scienziati sono fuori dai laboratori e interagiscono direttamente con il pubblico (…). Mentre le tradizionali barriere di comunicazione vengono meno, non solo fra gli scienziati ma anche fra il mondo scientifico e l’opinione pubblica, i ricercatori devono farsi forti dell’opportunità di poter raggiungere le persone oltre i muri dei propri laboratori e ripensare il ruolo che vogliono giocare nella società intesa in senso ampio». Secondo una delle principali pubblicazioni scientifiche mondiali, infatti, «è davvero importante che questo canale di comunicazione diretto fra medico e paziente rimanga aperto» anche nei giorni successivi alla pandemia.
La professoressa Marta Bassi, psicologa di formazione, tiene il corso di Comunicazione e relazione in medicina presso il Polo Vialba dell’università Statale di Milano. Sanità Informazione l’ha raggiunta per un’intervista telefonica nella quale, ha spiegato la professoressa Bassi, una delle prime questioni da sottolineare è come la proiezione pubblica del medico, sia nel rapporto con i pazienti sia nel rapporto con una più vasta audience, richieda un approccio multidisciplinare che deve tenere insieme le scienze cliniche, quelle psicologiche e quelle sociali.
«Anche in questa fase pandemica rimangono valide alcune regole generali che definiscono il rapporto medico–paziente. La persona che si rivolge ad un medico deve potersi relazionare con un professionista che sia prima di tutto un ascoltatore, che sappia comprendere il portato del paziente e quali siano le sue credenze riguardo alla propria condizione di salute. Ognuno, in generale, prima di arrivare in ospedale si è già fatto una sua diagnosi, si porterà dietro un vissuto e delle paure; così il rapporto deve mantenersi interattivo e reciproco, cosa che a volte non avviene. C’è poi l’altro piano, quello della comunicazione di massa, in cui il dato scientifico deve poter essere compreso da tutti o comunque spiegato il meglio possibile, fermo restando la complessità e l’incertezza che caratterizzano il fenomeno patologico».
«Moltissimo. In questi mesi ho mantenuto i contatti con alcuni colleghi dell’Ospedale Sacco a Milano e ho condiviso quel che stavano vivendo, anche se a distanza. Le modalità di relazione sono chiaramente diverse, oggi mediate dal fatto che medico e paziente devono portare la mascherina e i DPI. Tutto ciò riduce la comunicazione non verbale e la vicinanza fisica. Nei casi in cui il medico è tenuto ad indossare la tuta protettiva, apporre il proprio nome diventa un gesto importante perché aiuta il paziente a umanizzare e identificare chi si sta prendendo cura di lui. Questa condizione di emergenzialità ha preso alla sprovvista anche il personale sanitario e questo è un dato nuovo, lo ha reso più umano nella percezione del paziente. Questo può portare ad una alleanza più profonda sul piano relazionale e terapeutico che va a rafforzare, anziché scalfire, l’autorevolezza del medico».
«Io credo di sì. Oggi l’epidemia ha sfidato le conoscenze della medicina e accanto dunque alla certezza, che rimane condivisa, che la scienza medica e le competenze cliniche del medico siano elementi essenziali, torna più che mai alla ribalta la centralità della relazione. La relazione e la comunicazione sono parte integrante del processo di cura, non devono essere solo un tratto associato a questa emergenza. Anche perché su questo abbiamo dei dati incoraggianti».
«Risultati preliminari di uno studio che stiamo conducendo sembrano mostrare che una relazione empatica nei confronti del paziente possa favorire il ritorno alla vita quotidiana dopo l’esperienza in ospedale. Questi dati vanno a sommarsi a quanto già emerso nella letteratura scientifica, ossia che una relazione empatica ha un incredibile effetto motivante negli operatori: se io ti aiuto e lo sto facendo bene, questo rappresenta un fattore motivante anche per me medico. Una buona relazione giova insomma sia al medico che al paziente, è virtuosa per entrambi».
«Su questo molto si è detto e non voglio aggiungere. Mi preme però sottolineare una cosa che mi sta molto a cuore e cioè che fra il singolo paziente e il vasto pubblico ci sono quelli che, definirei, corpi intermedi. È bene che tutti i professionisti della salute tengano sempre in considerazione l’esistenza delle associazioni dei pazienti e dei loro famigliari. Parliamo di un mondo assolutamente fondamentale e spesso sottovalutato, in grado di fare da ponte nel dialogo tra il macro e il micro».
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