Fineschi (Sapienza): «Autopsie momento fondamentale dal punto di vista diagnostico». Ricci (Univ. Magna Graecia): «Con autopsie possibile distinguere tra morti di Covid e con Covid»
Perché ad inizio pandemia non si effettuavano autopsie sui morti Covid? Per nascondere all’opinione pubblica i reali motivi dei decessi (tesi molto in voga in ambienti negazionisti/complottisti) oppure, banalmente, perché non si sapeva ancora nulla di questo nuovo coronavirus e, di conseguenza, si temeva che il virus potesse diffondersi anche dopo il decesso del malato? Anche di questo si è parlato nel corso di un recente webinar organizzato dal provider ECM di Consulcesi Club dal titolo “La gestione integrata del rischio clinico e del contenzioso”.
«Non vi è dubbio – spiega il professor Cristoforo Pomara, ordinario di Medicina Legale all’Università degli Studi di Catania – che era giusto dimostrare scientificamente che l’ “oscurantismo” delle autopsie era sbagliato. È quello che hanno fatto, ovviamente senza sollevare polemiche, il mio gruppo di lavoro e altri colleghi con diverse pubblicazioni». Questa dimostrazione ha avuto una grande eco mediatica e «ciò ha fornito l’assist affinché a maggio 2020 si potesse rivedere la circolare che, di fatto, vietava le autopsie sia giudiziarie che cliniche».
Secondo il professor Pomara il passaggio successivo è quello di arrivare al livello tedesco: «In Germania esiste un registro nazionale per le autopsie da Covid e post-vacciniche». Stessa cosa accade in Sicilia dove, «su spinta dell’Istituto di Medicina Legale di Catania, è stato istituito un registro regionale per le autopsie Covid e post-vacciniche e, al contrario di ciò che avveniva, vi è una norma regionale dell’assessorato alla salute che incita tutte le direzioni sanitarie ad espletare le autopsie. Ribadisco – conclude Pomara – che abbiamo scientificamente provato, con plurime pubblicazioni, che si tratta di normali autopsie di soggetti affetti da un’infezione di natura virale ma non contagiosa per gli operatori».
«La gestione autoptica in corso di pandemia – spiega Vittorio Fineschi, professore ordinario di Medicina Legale dell’Università La Sapienza di Roma – è stata connotata da due diversi momenti: nel primo la non conoscenza del virus e delle dinamiche di diffusione dello stesso, anche su soggetti ormai cadavere, ha fatto sì che non si facessero autopsie. Successivamente – continua – si è capito dalle biopsie che venivano fatte ai malati, ma anche dalle prime autopsie che giungevano da altre parti del mondo, che invece si trattava di un momento fondamentale dal punto di vista diagnostico. Con le autopsie si potevano capire quali erano i meccanismi fisio-patologici che sostenevano il danno d’organo in corso di infezione. Come, ad esempio, cosa sosteneva il danno polmonare, ovvero l’iniziale causa dell’insufficienza respiratoria progressiva che conduceva a morte. Progressivamente, al tavolo autoptico, sono stati dati valori diagnostici importantissimi e si è capito, finalmente, cosa andasse fatto anche dal punto di vista terapeutico».
«L’esecuzione delle autopsie in casi Covid – spiega il professor Pietrantonio Ricci dell’Università Magna Graecia di Catanzaro – ci ha dato anche la possibilità di poter distinguere tra le morti causate dal virus e quelle solo correlate all’infezione. Non dobbiamo dimenticare infatti una cosa che poi è entrata anche nella clinica e nella ricerca: molti morti, in specie pazienti anziani, avevano altre patologie e la loro morte è stata causata dal fatto che il virus ha aggravato un quadro clinico già compromesso. Credo poi – continua Ricci – che questo vada preso in considerazione quando facciamo le valutazioni sulla mortalità del virus», perché se è vero che «parliamo di un virus estremamente pericoloso per la salute e per la vita umana, in quanto anche quando si guarisce ci sono dei postumi e delle sequele polmonari importanti», se ci fosse stata l’opportunità di «poter fare da subito più autopsie, saremmo stati in grado di avere dati più precisi sulla mortalità diretta del Covid».
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