Giorgio Berlot, docente e primario all’ospedale Cattinara di Trieste, ripercorre i suoi primi mesi nella rianimazine Covid-19
«Io sono in terapia intensiva da 37 anni e una cosa del genere non l’ho mai vista in vita mia. Ho vissuto qualche altra epidemia; ricordo l’H1N1, la Sars, ma una con un virus così forte, di una vastità tale da spargere infinito dolore e disperazione, non l’ho mai vista. Adesso tutti quelli che fanno i sapientoni, usando espressioni del tipo “lo sapevo” o “l’avevo detto”, in realtà, come me, neanche loro si aspettavano una malattia di queste proporzioni». È piena di dolore la testimonianza di Giorgio Berlot, docente di Anestesia e Rianimazione all’Università di Trieste e primario del reparto di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale Cattinara, raccontata a Interris.it.
Parla del suo Friuli e ringrazia di aver avuto qualche settimana in più per poter preparare gli ospedali all’arrivo dei pazienti, cosa che non è stata concessa ai colleghi lombardi. «Abbiamo avuto il tempo di far arrivare dispositivi e protezioni, ma soprattutto siamo riusciti a trasformare la terapia intensiva dell’ospedale in una terapia intensiva presso negativa – ricostruisce il primario – cioè con l’aria che non può uscire e tutto quello che c’è dentro deve essere aspirato attraverso i filtri e buttato fuori». Preparati anche psicologicamente, con una specie di addestramento per tutti i coinvolti, le conseguenze del contagio li hanno comunque travolti.
L’organizzazione è stata la prima regola: «Quando abbiamo cominciato a lavorare con questi pazienti, ho formato un gruppo che a sua volta aveva dei sottogruppi di due persone, ognuno dei quali si occupava di determinati aspetti come la ventilazione, gli antibiotici, la nutrizione eccetera – evidenzia Berlot –. Due elementi per ogni gruppo perché ho sempre messo in conto che uno dei due potesse ammalarsi. Per fortuna ad oggi, il mio reparto è uno dei pochi nell’ospedale di Trieste dove nessun medico si è ammalato. Ci comportiamo sempre come se tutti i pazienti che arrivano fossero pazienti Covid. Questo è un gioco di squadra, dal primario alla signora che raccoglie i camici sporchi, sono tutti fondamentali».
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La paura non è stata facile da arginare, racconta il primario, anche quella verso il paziente che poteva a sua volta contagiare loro. Tutti i pensieri sono come congelati dentro quella tuta impermeabile in cui si suda senza poter mai bere o andare in bagno. «Ci si impiega 8-10 minuti per indossarla all’inizio, poi anche cinque minuti, ma mentre vestirsi è facile, svestirsi diventa più complicato e pericoloso, perché se non si presta molta attenzione è quella la volta in cui ci si potrebbe contaminare».
Poi il dolore di dover comunicare alle famiglie che i loro cari non ci sono più. «In quei casi però bisogna ammettere che noi abbiamo fatto di tutto, in scienza, conoscenza e nelle possibilità, ma non ce l’abbiamo fatta. Nella mia esperienza di medico – ricorda il primario – non è la prima volta che mi ritrovo a dare queste comunicazioni, ma solitamente queste informazioni vengono date guardandosi negli occhi. La pandemia invece non ce lo consente e devo comunicare queste notizie alle persone per telefono, genitori, figli e nipoti che nelle ultime ore di vita dei loro parenti non possono stare loro vicini, così come abbiamo sempre fatto fare, in modo che possano dare ai loro cari un’ultima carezza».
«Spero si trovi un vaccino, perché temo che la pandemia continuerà ancora molto – non nasconde i suoi timori il dottore –. Leggendo libri di epidemiologia si evince che il virus della spagnola ebbe una prima botta forte nella primavera del 1918, una meno forte nell’autunno dello stesso anno e due ricadute fortissime nella primavera del 1919. Tutto ciò spaventa e fa presagire che non sia finita qua».
Tra i farmaci usati, sottolinea Berlot, uno li ha fatti ben sperare: «Il farmaco per l’artrite reumatoide individuato dal professor Paolo Antonio Ascierto, oncologo dell’ospedale Pascale di Napoli. Questo farmaco, utilizzato precocemente, ha dato numerosi risultati positivi. Una notte sono arrivati due pazienti gravissimi da Cremona e contro ogni protocollo ho deciso di curarli subito con questo farmaco – conclude il primario –. In cinque/sei giorni sono subito migliorati, tornando a respirare autonomamente. Ad uno di questi, tramite il telefonino, abbiamo mostrato l’immagine della moglie in video chiamata, incinta e in attesa di riavere il marito a casa con lei. Sono momenti, volti e gesti che non dimenticherò mai».
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