Il presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria: «Riorganizzare il sistema per renderlo più omogeneo sul territorio nazionale, attivare l’Osservatorio epidemiologico sulla salute nelle carceri e creare reparti di medicina protetta in ospedale»
Con il DPCM del 2008 la sanità penitenziaria è passata dalle competenze del Ministero della Giustizia a quella del Ministero della Salute. Un passaggio che si è poi trasformato in una inevitabile frammentazione della sanità penitenziaria derivante dalle autonomie regionali. Le criticità scaturite sono andate a sommarsi alle ataviche complessità che caratterizzano il sistema penitenziario, che vede transitare ogni anno, nei 190 istituti dislocati sul territorio, oltre 100mila persone cui deve essere garantito il diritto fondamentale della salute.
Cosa è cambiato da allora? Quante e quali delle evidentemente anacronistiche norme che regolano da 50 anni la sanità penitenziaria sono state realmente adeguate alle esigenze attuali, e su quali c’è ancora da lavorare? Soprattutto, quanto e come ha inciso la pandemia di Covid nell’evidenziare la necessità di riorganizzare il sistema sanitario penitenziario in modo più omogeneo, che superi i limiti del DPCM 2008? A far luce su questi interrogativi il Tavolo Tecnico Istituzionale e Interdisciplinare “Sanità Penitenziaria. Quale futuro?”, organizzato ieri con il contributo non condizionato di Gilead Sciences in apertura del Congresso SIMSPe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria) presso l’Hotel dei Congressi a Roma.
«Durante il primo lockdown le carceri si sono chiuse dall’esterno – spiega ai nostri microfoni il presidente SIMSPe Luciano Lucania – e c’è stata una contrazione generale di ogni tipo di attività finché non sono arrivati i vaccini. Il sistema ha retto bene, tutto sommato, nonostante la presenza di alcuni focolai. I colloqui con le famiglie sono stati gestiti online. Nella seconda fase si è cominciato a vaccinare».
«La percentuale di detenuti vaccinati – precisa – è stata sin da subito molto alta, oggi siamo oltre il 70%, e la stragrande maggioranza dei detenuti si è mossa attivamente per aderire alla campagna vaccinale. E tuttavia – sottolinea Lucania – proprio l’importante penetrazione del virus in alcuni Istituti e la quasi totale assenza in altri dimostra chiaramente la mancanza di linee organizzative omogenee nel sistema».
«Se oggi c’è in generale carenza di personale sanitario, nelle carceri la situazione è ancora più drammatica – afferma Sergio Babudieri, direttore scientifico SIMSPe -. Al netto della “vecchia guardia”, che ha fatto dell’assistenza ai detenuti una missione oltre che un lavoro, c’è una tendenza a considerare la medicina penitenziaria un impiego di serie B. C’è quindi bisogno di chiarezza e uniformità a cominciare dai contratti del personale medico, infermieristico e tecnico».
«La riforma del 2008 – continua Babudieri – ha trasferito le competenze dal Ministero della Giustizia a quello della Salute, quindi il controllo della sanità penitenziaria è passata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che governa tutti gli istituti penitenziari alle singole regioni: per garantire alle persone detenute una qualità dell’assistenza sanitaria pari ai liberi cittadini, il prezzo pagato è stato la perdita dell’unicità del sistema. Il Decreto aveva istituito degli osservatori regionali per la tutela della salute in carcere – sottolinea – ma solo poche regioni particolarmente virtuose come Emilia-Romagna, Toscana e Lombardia si sono organizzate; manca un approccio sistematico».
«È sicuramente urgente – afferma il presidente SIMSPe Lucania – inquadrare in maniera oggettiva il sistema nell’ambito dell’offerta sanitaria del SSN. Il sistema sanitario penitenziario è attualmente competenza di ogni singola Regione, motivo per cui abbiamo 21 sistemi simili nei servizi erogati ma profondamente diversi nelle forme e nei modi. Questa frammentazione è fallimentare. È necessaria una norma quadro nazionale che inserisca nei Lea una serie di aspetti relativi alla salute dei detenuti».
«In secondo luogo – prosegue Lucania – attivare in maniera reale l’Osservatorio Epidemiologico Nazionale sulla salute nelle carceri. Il vero problema sanitario nelle carceri non sono infatti le malattie infettive, ma le acuzie, le subacuzie e le cronicità. Pensiamo ai cardiopatici, ai malati di cirrosi epatica, agli oncologici, alle patologie legate alla dipendenza, per non parlare del vastissimo capitolo della patologia psichiatrica compresi i disturbi psichiatrici di cui spesso la detenzione è causa. Il sistema oggi non è adeguatamente integrato con i servizi territoriali delle aziende sanitarie, c’è bisogno di maggior chiarezza relativamente alle strutture da utilizzare, al ruolo del personale, alle singole responsabilità».
«Infine – conclude il presidente SIMSPe – ampliare quei validissimi progetti pilota, attualmente in vigore in alcune strutture ospedaliere italiane, dei reparti di medicina protetta: dei normali reparti ospedalieri destinati ai detenuti, dotati di un nucleo stabile di polizia penitenziaria all’interno che provvede a tutti gli aspetti di gestione, oltre ovviamente al personale medico e infermieristico. Il modo migliore per gestire il paziente detenuto in un ambiente protetto e corretto sotto il profilo sanitario per qualsiasi tipo di intervento o cura necessiti».
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