I primi anni in servizio durante l’epidemia di colera a Napoli, poi una lunga carriera al Cotugno. Oggi, a 74 anni, il nuovo incarico al Loreto Mare, riconvertito in ospedale Covid-19: «Mi aspettavo una catastrofica eruzione del Vesuvio, ma non questo. È un’emergenza storica». Poi il monito: «In futuro ci saranno altre minacce virali, che questa esperienza serva a non abbassare più la guardia»
Di nuovo in corsia. Di nuovo a combattere un nemico invisibile e insidioso, in una partita a scacchi dove la posta in gioco è la vita di migliaia di persone. Prevedere le sue mosse, arginarne l’avanzata, sapere che la battaglia sarà lunga, ma non sapere quanto. Quello che conterà, alla fine, sarà dichiarare scacco matto al Coronavirus. È la storia di Franco Faella, uno dei maggiori infettivologi italiani, ex primario all’Ospedale Cotugno di Napoli, in pensione dal 2015 dopo 45 anni di servizio. Oggi, a 74 anni, in piena emergenza Covid-19, la decisione di scendere di nuovo in campo, accettando la richiesta di mettere la sua esperienza al servizio di questa battaglia. Questa volta al Loreto Mare, famoso presidio ospedaliero del capoluogo campano designato ad essere la nuova roccaforte napoletana nella guerra al virus, riconvertito da ospedale generalista ad hub specifico per i casi di Covid-19.
Probabilmente non si smette mai di essere medici, neanche dopo qualche anno dalla pensione, come ci lascia intendere Faella quando gli chiediamo i motivi che lo hanno spinto ad accettare una sfida così rischiosa: «Intorno al 10 marzo il direttore generale della Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva mi ha contattato e mi ha chiesto, semplicemente: “le va di darci una mano?” e ho subito detto di sì. Il motivo è questo: di certo non sono un eroe, sono semplicemente un infettivologo, lo sono stato per tanti anni e di fronte ad una patologia del genere volevo esserci anche io. Certo – ammette – ho dovuto un po’ battagliare con mia moglie e mia figlia, che temono per la mia salute. Io ho risposto loro la verità: c’è bisogno di me, vado ad aiutare».
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E ci racconta, in effetti, in cosa consiste questo “dare una mano”: «In 45 anni da infettivologo ho acquisito la mentalità tipica di questa branca, che consta di una determinata organizzazione nell’affrontare le malattie infettive. Un approccio e uno sguardo diverso alla questione, insomma, rispetto a quello che possono avere i rianimatori o gli internisti. Sto quindi dando consigli in merito alla profilassi – spiega – dei cosiddetti “percorsi puliti” e “percorsi sporchi”, per far sì che il personale sanitario medico e paramedico eviti la possibilità di contagiarsi in servizio. Va da sé – aggiunge – che se capiterà di poter dare il mio aiuto anche in fase terapeutica ne sarei ben lieto, ma sono molto fiducioso nelle capacità dei miei colleghi che si occupano proprio di questi aspetti».
Faella si è fatto le ossa in corsia con l’epidemia di colera scoppiata a Napoli nell’estate 1973. In dieci giorni si arrivò a quasi mille ricoveri, la popolazione era nel panico, la crisi fu risolta con un vaccino e un bilancio di “sole” 24 vittime. All’epoca l’ex primario era un giovane medico ventisettenne. Quando gli chiediamo se quest’epidemia è in qualche modo sovrapponibile, lui non ha dubbi: «No, non lo è. Il colera è un’infezione batterica, di facile controllo perché ad esclusiva trasmissione oro-fecale. Ciò significa che per evitare di contrarla basta il lavaggio delle mani e la cottura dei cibi. Oggi siamo di fronte innanzitutto a una patologia nuova, con un virus sconosciuto al nostro sistema immunitario, e poi è un virus che si trasmette per via aerea, con contagio diretto, e questo grava moltissimo su tutta la situazione».
E se è vero che da ogni sconvolgimento epocale l’uomo ha il dovere morale e spesso la necessità biologica di trarre qualche insegnamento, di cosa converrà fare tesoro quando tutto questo sarà finito? Ad oggi il focus è soprattutto sul migliorare la capacità di risposta del nostro sistema sanitario, per non farsi cogliere, in futuro, impreparati. Sì, perché in futuro dormire sonni tranquilli dal punto di vista epidemiologico sarebbe una imperdonabile ingenuità. «Siamo davanti a un’emergenza storica – afferma Faella -, la prima anche per chi, come me, ha più di 70 anni e per un pelo non ha vissuto la seconda guerra mondiale. Tutto si poteva immaginare, probabilmente anche una catastrofica eruzione del Vesuvio, ma non questo. Certo, alla luce di ciò dovremo rivedere tante cose, ma non è il momento questo di addossare responsabilità. A dire il vero, però – confessa – io temevo che questo momento sarebbe arrivato. Non questo virus nello specifico, magari, ma chi è infettivologo come me passa la vita a convivere con il dubbio, o meglio la consapevolezza, che prima o poi arrivi il “Big One”, la grande epidemia. I candidati ideali per lo scoppio di questo Big One erano però altri due virus, il Nipah e l’Hendra, ancora sconosciuti a chi non è del mestiere, e anche loro sconosciuti al nostro organismo. Si tratta di virus ad alta contagiosità (contagio diretto), ad RNA e monofilamento. Oggi combattiamo contro il Coronavirus, e speriamo di uscirne al meglio possibile, ma domani potremo trovarci a combattere contro di loro. E con il mondo globalizzato che abbiamo oggi – conclude – abbassare la guardia sarebbe il più fatale degli errori».
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