Il segretario nazionale della Federazione italiana medici di medicina generale: «Esami di orientamento, poi sarà lo specialista a refertare». E si scaglia contro il passaggio eventuale da convenzione a dipendenza: «La nostra autonomia professionale è preziosa. Non siamo anarchici, solo responsabili»
Diagnostica di primo livello, telemedicina, nuove competenze. Sono solo alcune delle voci di quella “rivoluzione annunciata” della medicina territoriale, che ha dovuto subire una brusca battuta d’arresto a causa dell’emergenza Covid degli scorsi mesi. Sono subentrate priorità extra-ordinarie, ma adesso, lontani dal periodo cruciale della pandemia, ripensare, valorizzare e recuperare i progetti in sospeso per la branca della medicina generale si posiziona in cima alla “to do list” del comparto sanitario. Questo anche alla luce del ruolo fondamentale giocato dai mmg sul fronte della lotta al Covid-19: a livello regionale, la maggiore o minore capillarità della rete della medicina territoriale è stata il fattore dirimente nella gestione e nell’andamento dell’epidemia. Insieme al segretario nazionale Fimmg Silvestro Scotti facciamo il punto della situazione, dello stato dell’arte e di ciò che verrà.
Cominciamo proprio da quel che è stato lasciato in sospeso: l’avvento della diagnostica di primo livello negli studi dei medici di famiglia. Che ne è stato di quel progetto?
«Mi permetta di esordire con un’espressione un po’ forte: trovo vergognoso che questo progetto sia ancora arenato. In questo periodo si sono costruiti dal nulla reparti di terapia intensiva per coprire eventuali casistiche più ampie di Covid-19 ma non si è stati altrettanto solerti nell’utilizzare quei 236 milioni di euro stanziati lo scorso anno in legge di Bilancio per il nostro settore. Oggi potremmo aver risolto molti nodi importanti, a cominciare dalle liste d’attesa infinite per lo stop di molte attività ambulatoriali, e avere una sanità efficiente in grado di coesistere con il Covid a livello endemico. Perché è inutile prenderci in giro, col virus ci conviveremo ancora per molti mesi. E l’offerta sanitaria del prossimo futuro dovrà necessariamente tener conto di questo. La medicina generale sta già attivando alcune procedure, in Veneto i colleghi nelle reti integrate sono partiti con la diagnostica di primo livello, e la Fimmg sta impegnando parte dei fondi raccolti nella prima fase dell’emergenza per i DPI anche per le apparecchiature diagnostiche di cui dotare gli studi. È chiaro però che sono gocce nel mare, laddove il mare dovrebbe essere lo Stato. In un mio recente incontro con il ministro Speranza sono stato rassicurato sull’imminente sblocco del progetto, nel caso anche tramite una ordinanza del Ministro stesso. Spero vivamente che sarà così perché non è più tempo di rimandare».
La partenza di questo nuovo tipo di offerta sanitaria comporterà anche una rivoluzione nell’ambito delle competenze. Parliamo della refertazione. C’è una questione aperta?
«C’è innanzitutto da fare chiarezza sull’utilizzo di queste attrezzature negli studi di medicina generale. Noi semplicemente agiamo nell’ambito delle nostre visite e delle nostre valutazioni diagnostiche. Se riteniamo necessari approfondimenti, indirizziamo il paziente (ed il suo bagaglio diagnostico così come da noi valutato) a uno specialista di secondo livello che potrà refertare. Un esempio calzante riguarda le ecografie: quelle effettuate nei nostri studi non saranno di tipo diagnostico ma generalistico, di orientamento. Nel caso di un forte e improvviso dolore addominale, ad esempio, io potrò verificare tramite ecografia se trattasi di colica renale, di calcoli o semplicemente di meteorismo acuto trattabile con una terapia. Tutto questo servirà, ovviamente, a ridurre gli accessi in ospedale».
Questo nuovo modello di offerta sanitaria investirà anche l’ambito contrattualistico? C’è una volontà di ripensare il sistema della convenzione in favore di un contratto alle dipendenze del Ssn oppure no?
«Un eventuale passaggio alle dipendenze pubbliche credo che apporterebbe solo svantaggi, perderemmo gran parte della nostra autonomia professionale. Troppo spesso fingiamo di dimenticarci che molti medici dipendenti hanno lasciato il sistema pubblico per entrare nel privato, dove vige evidentemente una contrattualistica più rispettosa dell’autonomia professionale. Oggi per un professionista essere dipendente del pubblico significa rispondere agli ordini di servizio, significa accettare che l’appropriatezza si decida in altre stanze, quelle delle direzioni sanitarie nella migliore delle ipotesi, purtroppo a volte in quelle amministrative, assimilando di fatto il medico ad un esecutore. Ecco perché preferiamo mantenere la nostra autonomia, che non è anarchia, ma anzi forte responsabilità sul nostro stesso operato. Ed è quello che poi di fatto permette al paziente di sceglierci, in piena libertà e cognizione di causa».
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