L’ANMIL ha dedicato la sua ultima ricerca, “Diritti delle donne lavoratrici, rischi infortunistici e tutela del lavoro”, a tutte le donne che hanno continuato a lavorare anche nei momenti peggiori della pandemia. Secondo i dati elaborati dall’INAIL nel biennio 2020-2021 il 68,3% degli infortuni ha colpito il genere femminile
Vilma ad aprile compirà 68 anni e, guardandosi alle spalle, le sembra quasi un miracolo. A Vilma, infermiera dai primi anni ’70, il suo lavoro è costato quasi la vita. Dal 2004 soffre di encefalomielopatia da zoster, una malattia degenerativa che danneggia progressivamente la mielina, la guaina che protegge e isola le fibre nervose. Infermiera al centro vaccinazioni ASL ha contratto la varicella (causa dell’encefalomielopatia) da un piccolo paziente. Oggi, dopo quasi anni dieci anni di pensione, ha deciso di raccontare la sua storia nel giorno della festa della donna per dedicare un pensiero a tutte le lavoratrici vittime di infortunio professionale.
Un omaggio condiviso anche dall’ANMIL, l’Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro, che ha dedicato la sua ultima ricerca, “Diritti delle donne lavoratrici, rischi infortunistici e tutela del lavoro”, a tutte le donne che hanno continuato a lavorare pure nei momenti peggiori della pandemia, anche a costo della propria vita. Secondo i dati elaborati dall’INAIL nel biennio 2020-2021 sono stati denunciati complessivamente circa 191 mila infortuni da infezione da Covid-19 in ambito lavorativo, di questi ben 130 mila (pari al 68,3% del totale) hanno colpito la componente femminile, contro il 31,7% di quella maschile.
Era il 2004 quando Vilma ha contratto la varicella da un bambino assistito durante le sue ore di lavoro. «Mi sono accorta di essermi ammalata solo a distanza di qualche giorno – racconta la donna -. Tutto è iniziato con un forte dolore alla testa e alla parte sinistra del corpo. Mi sono riempita di vescicole. L’occhio sinistro si è gonfiato talmente tanto che ho rischiato di perderlo. Non mi reggevo in piedi, avevo le vertigini, male alle orecchie e non riuscivo nemmeno a parlare bene perché la malattia mi aveva provocato pure una paresi facciale». Nel 2005 Vilma ha ottenuto il riconoscimento dell’invalidità al 25% e i benefici previsti dalla legge 104.
Ci vorranno molte ore trascorse in un’aula di tribunale prima che riesca ad ottenere una percentuale di invalidità adeguata alle sue reali condizioni. «Nel 2010 ho ottenuto un aggravamento dell’invalidità all’80%, equiparata ad un’invalidità di guerra, riconoscimento raro tra gli infermieri vittime di infortunio sul lavoro», assicura la donna.
Dalla diagnosi sono trascorsi nove anni prima che Vilma potesse andare in pensione. «Nove lunghi anni in cui – racconta – alternavo periodi di malattia, permessi per visite mediche e giornate di lavoro in cui svolgevo mansioni amministrative. Ho dovuto rinunciare al lavoro in prima linea perché avrei potuto contrarre di nuovo lo stesso virus. E questa volta la malattia non mi avrebbe lasciato scampo».
Questi per Vilma sono stati gli anni più difficili di tutta la sua vita: non ha dovuto fare i conti solo con la malattia, ma anche con la solitudine e con la diffidenza altrui. «Mi sono ritrovata sola: mia figlia studiava all’università e mio marito, prima impegnato con il suo lavoro, si è poi gravemente ammalato ed ha subito un trapianto di fegato. Dal resto del mondo subivo mortificazioni inimmaginabili: per tutti ero solo una malata immaginaria»
«Le offese subite – dice Vilma – sono state peggiori della malattia stessa. Ricevere una diagnosi è stata la mia redenzione: non ha significato soltanto poter essere curata con i farmaci giusti, ma non essere più chiamata “pazza”. Chiunque continuava a ripetere che quel profondo malessere fisico era solo frutto della mia immaginazione».
Nemmeno i medici avevano riconosciuto immediatamente la malattia di Vilma: «Mentre attendevo che qualche specialista formulasse la diagnosi corretta la mia malattia è arrivata al cervello danneggiando la mielina. Ho rischiato anche di essere licenziata per questo ritardo diagnostico – racconta la donna – a volte ero incapace pure di reggermi in piedi, figuriamoci di sostenere un turno di lavoro da infermiera».
Ora Vilma è ipovedente e la vista continua a calare, giorno dopo giorno. La sua malattia le ha lasciato anche segni visibili sul volto: ha un occhio paralizzato e la bocca leggermente storta. Anche il suo sistema muscolo-scheletrico è stato danneggiato dalla malattia, tanto che è costretta a fare riabilitazione motoria per tre giorni alla settimana in un centro di riabilitazione specializzato dell’ASL. L’encefalomielopatia da zoster, infatti, è una patologia degenerativa come la sclerosi multipla.
Dopo l’infortunio Vilma ha dovuto raccogliere i cocci non solo della sua vita professionale, ma anche di quella privata. «Inutile dirlo che non sono più stata né la stessa moglie, né la stessa madre. Per gestire la casa ho dovuto chiedere l’aiuto di una domestica. La mia forza nelle braccia si è ridotta ai minimi termini: non sono in grado nemmeno di sollevare una bottiglia d’acqua. Tanto da essere costretta ad utilizzare solo quelle da mezzo litro, che pure verso a fatica», dice la donna.
Nonostante tutte le sofferenze patite Vilma riesce a raccontare la sua storia mantenendo un tono della voce sempre calmo, pacato, sereno. E quando parla della donna che è diventata lo fa con il sorriso: «Tra poco compirò 68 anni. E ne sono felice. Questa malattia avrebbe anche potuto uccidermi. Sono sopravvissuta perché nonostante le numerose porte in faccia ho continuato a lottare per ottenere prima una diagnosi corretta, poi il riconoscimento della giusta percentuale di invalidità». Ed è per non vanificare le sue battaglie che, in occasione della feste dedicata alle donne, Vilma lancia un messaggio a tutte le lavoratrice vittime di infortunio professionale: «Non arrendetevi mai. Perché finché c’è vita ci sarà sempre anche speranza».
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