Secondo il primo rapporto Univadis Medscape in Italia, i medici hanno speso in media 1.200 euro per Dpi e 6 su 10 hanno deciso di stipulare un’assicurazione integrativa
Qual è stato l’impatto della pandemia sul reddito e sul lavoro dei medici italiani? Una risposta la dà Univadis Medscape Italia (portale di informazione per i professionisti della salute) che ha indagato sulla loro situazione economica. Dal sondaggio emerge che per quasi la metà del campione il 2020 è stato un anno difficile, e non solo perché i medici sono stati sempre in prima linea nell’affrontare l’emergenza sanitaria ma anche dal punto di vista economico. Vediamo cosa dice la ricerca.
«Con il lockdown la vita delle persone è stata improvvisamente stravolta, e ancora di più quella dei medici che hanno portato il peso dell’emergenza sanitaria, compiendo enormi sforzi per gestire e contenere la pandemia e curare al meglio i pazienti affetti da coronavirus. A tale sforzo non sempre è corrisposto un compenso adeguato», spiega Daniela Ovadia, Coordinatore Editoriale Univadis Medscape Italia e autrice del report.
«Quello che emerge dall’indagine – continua – è che circa un terzo del campione ha indicato una riduzione di introiti che va dal 10 fino al 25%, con picchi che superano anche questa percentuale, e che i professionisti attribuiscono alla pandemia da Covid-19. La stragrande maggioranza dei medici che ha subito una contrazione del proprio reddito (il 92%) è costituita proprio da professionisti operanti in strutture sanitarie pubbliche ma non come dipendenti. L’arrivo della pandemia ha quindi significato per loro un limitato accesso agli ospedali per ragioni di sicurezza e la conseguente perdita del lavoro, la riduzione delle ore lavorative e del volume dei pazienti, causando la riduzione del reddito».
Oltre a questo, è risultato che la pandemia è stata il primo fattore ad incidere sulle spese quotidiane extra dei medici: in media, i medici hanno infatti speso 1.200 euro per dispositivi di protezione individuale e 6 su 10 hanno deciso di stipulare un’assicurazione integrativa. Inoltre il 69% dei medici ha pagato di tasca propria l’assicurazione professionale per la responsabilità civile.
A conti fatti, alla fine del mese il 44% degli intervistati dichiara di non riuscire a mettere da parte nulla per il proprio futuro, e si nota la presenza di una visione piuttosto pessimistica rispetto al ritorno alla normalità: l’11% dei medici è convinto che il proprio reddito sia destinato a non tornare mai più ai livelli pre-Covid e il 55% pensa che ci vorranno almeno tre anni.
L’insoddisfazione dei medici potrebbe inoltre costituire una leva per cercare di migliorare la propria situazione economica lavorando in altri Paesi europei. «Questo vale soprattutto per le nuove generazioni di medici che hanno motivazione e strumenti per poter lasciare l’Italia forse più facilmente – commenta Daniela Ovadia –. Tra chi vorrebbe trasferirsi all’estero, il 18% sceglierebbe come destinazione di lavoro il Regno Unito, sia per la maggiore richiesta di professionisti in ambito sanitario, sia per la somiglianza con il Sistema sanitario italiano. Va considerato anche che le nuove generazioni di medici hanno maggiore conoscenza della lingua inglese rispetto alle generazioni precedenti, sicuramente un fattore che ne agevola il trasferimento».
La relazione con i pazienti compensa lo scontento per la propria situazione economica. Infatti il 33% dei partecipanti la descrive come uno degli aspetti più gratificanti del proprio lavoro. Altri motivi di soddisfazione personale sono la consapevolezza della propria bravura, l’aver contribuito a rendere il mondo un posto migliore, l’orgoglio di essere medico e il fatto di avere un reddito derivante dal lavoro che più piace. Questa fierezza nei confronti della professione medica è confermata anche dalle risposte alla domanda “Se lo dovesse rifare, sceglierebbe medicina come carriera?”: 3 medici su 4 confermano che sceglierebbero ancora medicina e, in percentuale analoga, confermano anche la scelta della propria specializzazione.
Il dato più sorprendente, considerando quanto accaduto nell’ultimo anno e la direzione presa dal PNRR riguardo alla riforma della sanità, è lo scettiscismo persistente nei confronti dell’utilizzo dei nuovi strumenti digitali per la salute e della telemedicina. L’impiego di tool e device per il benessere (come activity tracker, sleep tracker, smartwatch e app di monitoraggio dei parametri personali) non solo è ancora molto limitato (li usa il 16% dei medici) rispetto ad altri Paesi, ma vengono anche consigliati poco ai propri pazienti (solo il 15% dei medici li raccomanda).
Il quadro migliora se si parla della telemedicina, uno strumento che si è rivelato molto importante nel corso dell’emergenza causata dal Covid-19 e di cui i pazienti hanno cominciato a beneficiare, evitando per esempio di dover raggiungere gli ambulatori di cure primarie, ad alto rischio di sovraffollamento. Tuttavia, solo il 46% degli intervistati ha fatto ricorso a questo strumento tecnologico, giudicato comunque soddisfacente da 7 medici su 10. Tra quelli che non ne hanno ancora fatto uso, il 21% dei medici prevede in futuro di adottare il teleconsulto, che potrebbe aiutare i professionisti a superare i bisogni insoddisfatti di salute e cura, con lo sviluppo di una rete di sostegno sanitaria, assistenziale e sociale.
Per la prima volta l’Italia è stata inclusa nell’indagine che il Gruppo Medscape porta avanti regolarmente in diversi Paesi per analizzare i compensi e l’impegno lavorativo dei medici. Hanno aderito alla ricerca quasi 900 professionisti italiani che svolgono tutti la propria attività lavorativa a tempo pieno, ovvero per almeno 36 ore alla settimana; di questi, quasi tre quarti sono maschi (642 uomini vs appena 236 donne) e in una percentuale analoga hanno 45 o più anni (651 partecipanti over 45 di entrambi i sessi). Tra le specializzazioni, la più rappresentata è quella della Medicina Generale (12,3%), seguita dagli specialisti in Anestesia e rianimazione (9%) e in Chirurgia generale (8%). La maggior parte dei medici intervistati esercita la professione in ospedale – di cui il 62% in corsia e l’8% in ambulatori in ambito ospedaliero – e l’86% di loro pratica alle dipendenze o in convenzione con il Sistema Sanitario Nazionale.
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