Lavoro e Professioni 17 Aprile 2020 13:09

«Fase 2 e ruolo dei mmg: l’esperienza Covid sia un punto di partenza per una nuova medicina del territorio». Intervista a Silvestro Scotti (Fimmg)

Sono più di 140 i medici morti dall’inizio dell’epidemia. Molti erano medici di famiglia. Il Segretario nazionale della Federazione italiana dei medici di medicina generale: «Siamo una categoria sempre più anziana e fragile. Dovevamo essere protetti per primi»

«Fase 2 e ruolo dei mmg: l’esperienza Covid sia un punto di partenza per una nuova medicina del territorio». Intervista a Silvestro Scotti (Fimmg)

Oltre centoquaranta medici morti dall’inizio dell’epidemia di Coronavirus in Italia. Tra questi, tantissimi medici di famiglia. Si è in un momento dove assegnare responsabilità non basta più, bisogna fondare le basi e approntare strumenti per affrontare efficacemente la seconda fase di risposta all’epidemia, facendo in qualche modo tesoro delle esperienze maturate. Dell’imminente Fase 2, del necessario ripensamento della medicina territoriale, ma anche delle proposte sulla prossima campagna vaccinale antinfluenzale, abbiamo parlato con il Segretario Nazionale Fimmg, Silvestro Scotti.

La medicina generale è stata una branca letteralmente falcidiata dal virus. Proviamo, giunti alla fine di questa Fase 1, a tirare le fila di questa situazione. Cosa è mancato davvero, cosa si poteva fare di più?

«Premesso che siamo di fronte a un autentico dramma, nell’ultimo periodo si è cercato di limitare in qualche modo i danni anche grazie all’incremento del triage telefonico e, in generale, alla possibilità che qualunque contatto fisico tra medico e paziente fosse preceduto da un contatto telefonico in modo da poterne valutare la contagiosità rispetto ai sintomi espressi. Purtroppo è evidente che, oltre agli ospedali, l’altro grande punto di diffusione è stato l’ambito della medicina generale, nei cui studi il virus ha circolato sin dall’inizio. Dobbiamo considerare che in ogni studio passano circa 50 persone al giorno, perlopiù anziani e fragili, e che anziani e fragili lo sono sempre più spesso anche gli stessi i medici di famiglia. Loro sarebbero stati da proteggere per primi, in quanto area professionale epidemiologicamente e anagraficamente più esposta, e invece il reperimento di DPI è sempre stato estremamente difficoltoso. Una delle mie richieste è sempre stata quella di rendere noto non solo il numero di operatori sanitari contagiati, ma anche le loro aree professionali di appartenenza, così da intervenire in modo mirato su quelle più critiche. Ma questa mia richiesta è purtroppo caduta nel vuoto».

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Siamo alla vigilia della Fase 2. Cosa si aspetta il Paese dai medici di medicina generale, ma soprattutto cosa chiedono i mmg alle istituzioni per affrontare al meglio questa fase?

«Sicuramente, implementando il ricorso al triage telefonico, i pazienti contribuiranno a salvarci letteralmente la vita, soprattutto se i DPI continueranno a scarseggiare. Ci tengo a sottolineare che la nostra categoria sta facendo fronte a un’emergenza in assenza totale di risposte. A Napoli siamo riusciti a dotare gli studi di una ventina di mascherine (sufficienti per un mese scarso), ma ci è voluto l’intervento congiunto degli Ordini, delle associazioni di categoria, del sindaco, l’investimento delle aziende farmaceutiche. E passato questo mese che si fa? Di certo l’emergenza non sarà finita. Poi il problema non sono solo le mascherine. Ci vogliono visiere, calzari, camici usa e getta, tute in caso di attività domiciliare. Tutte queste attrezzature sono, ad oggi, controllate dalla Protezione civile, grazie al decreto che attribuisce priorità a quest’ente. Come Fimmg abbiamo fatto una raccolta fondi e abbiamo acquistato delle partite di mascherine. Le prime cinquantamila arrivate le abbiamo inviate direttamente in Lombardia, dove sono rimaste bloccate alla dogana per otto giorni. Questo per dire che è chiaro che la norma è fatta per evitare speculazioni, ma la norma non deve essere miope. Deve tener conto anche delle eccezioni presenti nel nostro sistema sanitario».

La sua proposta di chiudere gli studi medici è stata una provocazione?

«Né una provocazione né una protesta. Solo un modo per esprimere un dato di fatto.  Se io non posso dotarmi di adeguati DPI, ricorro ai Lea: nessuno sa, infatti, che lo studio del medico di famiglia aperto non rientra nei Lea. Di conseguenza, se le nostre condizioni di lavoro continuassero a mettere in pericolo noi e i nostri assistiti, io potrei legittimamente chiedere al garante dei Lea quali sono questi Livelli Essenziali e chiudere tutto il resto. Non sono minacce e non sono proteste, ripeto. Sono l’unico modo per tutelare la nostra salute e quella dei nostri pazienti, perché non dimentichiamo che anche noi medici potremmo veicolare l’infezione. È fondamentale il ricorso a un modello territoriale definito, nei rischi e nelle possibilità di erogazione. Le due cose sono infatti inversamente proporzionali: più diminuisce il livello di rischio, più aumenta il livello delle prestazioni erogabili».

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Come cambierà (se cambierà) la medicina territoriale dopo l’esperienza Coronavirus?

«C’è bisogno, e ce ne sarà sempre più in futuro, di un nuovo modo di intendere la medicina generale. Dobbiamo fare tesoro delle opportunità che, soprattutto in termini di implementazione tecnologica, questa emergenza sta dando alla nostra professione, perché il cambiamento diventi costante e non resti legato alla temporaneità di questa situazione. Si tratta di novità che svuotano gli studi di burocrazia, alleggeriscono i carichi di lavoro e possono lasciare più spazio alle attività di cura, soprattutto se pensiamo che il nostro Paese va sempre più incontro alla cronicità delle patologie legate alla terza età. Penso alle ricette dematerializzate, alla possibilità di videoconsulto e di attrezzature consegnate ai pazienti. Oggi, data la situazione, sempre più pazienti si dotano di un saturimetro, ma un domani il saturimetro potrà essere utilizzato per altre patologie enormemente diffuse anche a livello cronico. Così come tanti altri dispositivi attualmente utilizzati dai pazienti. Insomma, facciamo in modo che l’attuale investimento per migliorare a distanza la presa in carico del paziente sia un investimento a lungo tempo, e non legato alla contingenza della pandemia».

Fimmg e Cittadinanzattiva propongono di anticipare ad ottobre la campagna vaccinale antinfluenzale e contestualmente di allargare la fascia d’età per la somministrazione gratuita anche agli over 55. Qual è la ratio?

«È un altro modo in cui la medicina generale cerca di dimostrare il suo senso di valutazione pratica della realtà. Premetto che mi sono sempre battuto affinché, all’inizio dell’epidemia di Covid, si continuasse a vaccinare contro l’influenza cosicché, in presenza di sintomatologia simile, fosse possibile almeno attuare una scrematura. La ratio della proposta di anticipare ad ottobre prossimo l’inizio della campagna vaccinale antinfluenzale è la stessa. Se, come è plausibile aspettarsi, l’epidemia Covid scemerà d’estate, il ripresentarsi nella stagione autunnale di una sintomatologia influenzale sovrapponibile a quella Covid ci farebbe ripiombare nel caos in un attimo. Aver già vaccinato un congruo numero di persone porterebbe una discriminante non indifferente, e permetterebbe di differenziare efficacemente la casistica. Allargare la finestra temporale dei vaccini permetterebbe anche di evitare il sovraccarico e gli assembramenti se venisse accolta anche la proposta di estendere la gratuità della vaccinazione ai 55enni. Ma queste sono valutazioni e decisioni da prendere oggi, per non farci trovare impreparati domani».

 

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