I dati del 2021: 33.865 persone (+34,4% rispetto al 2020) hanno contratto una malattia professionale, 312.762 sono state vittime di infortuni (+8,3%), 677 lavoratori hanno pagato con la vita
«Sentivo che qualcosa in me non andava, che non funzionava più come avrebbe dovuto. All’inizio era solo una sensazione, poi è cominciato il corteo di sintomi. È bastato poco affinché, da medico, potessi cucirmi addosso una diagnosi di “epatite C”». Da quel giorno sono trascorsi quarant’anni, ma Fortunato Cassini, anestesista e rianimatore, membro del comitato esecutivo nazionale ANMIL e componente del consiglio nazionale della stessa Associazione, ricorda quei momenti drammatici con estrema lucidità.
Come lui, ogni anno, sono migliaia i lavoratori che contraggono una malattia professionale: nel 2020 sono stati 25.205, quest’anno 33.865 (+34,4%). A questi vanno aggiunte le vittime di infortuni (nel 2020 sono state 288.873, +8,3% nel 2021 con 312.762 incidenti) e tutti coloro che, lavorando, hanno perso la vita (716 nel 2020, 677 nel 2021). Ed è per ricordarli uno ad uno che il 10 ottobre si celebra la Giornata ANMIL per le Vittime degli Incidenti sul Lavoro, quest’anno giunta alla sua 71ª edizione.
A causare la malattia del dottor Cassini è stata, probabilmente, la puntura accidentale con un ago infetto. «Nelle sale operatorie, così come al letto del paziente, medici e operatori sanitari entrano in contatto con i materiali biologici dei pazienti e se questi sono infetti non è affatto escluso che ci si possa involontariamente contagiare». Il dottor Cassini conosceva bene i rischi del suo mestiere, ma accettare di esserne stato vittima in prima persona è tutta un’altra cosa. «L’esordio della mia malattia è stato traumatico. Difficile da immaginare e da rendere a parole – assicura l’anestesista -. Il rifiuto iniziale e la tendenza a “scotomizzare” il problema è stato l’impegno prioritario della mia mente. Ho iniziato a testa bassa la diagnostica strumentale e la terapia, cercando di risolvere i problemi man mano che si presentavano. Ho stressato i colleghi per poter tornare al lavoro quanto prima e cercare di abbattere i tempi della terapia». Una patologia come l’epatite C, purtroppo, non si risolve mai completamente, «specialmente per il vissuto – sottolinea Cassini -. Per fortuna, il mio lavoro, almeno per quanto io possa valutare, non è cambiato. Credo abbia subito dei contraccolpi soprattutto in termini di quantità».
Le infezioni non sono gli unici rischi a cui sono esposti medici, professionisti e operatori sanitari: «Se dovessi fare una sorta di classifica – dice Cassini -, senza ombra di dubbio, con diversità tra categorie di operatori, porrei al primo posto le malattie del rachide (patologia dei dischi intervertebrali, alterazioni degenerative della colonna …). Al secondo posto, le patologie neuromuscolari (alterazione delle articolazioni, dei tendini, neuriti uniche o multiple. Al terzo, ma ora forse sarà il momento di modificare l’ordine di presentazione a causa del Covid19, tutte le malattie infettive che possono essere contratte in corsia, non dimenticando che si può prevalentemente trattare di germi antibiotico resistenti. Così non si può omettere di sottolineare che è in progressione anche la tubercolosi. Ancora, malattie della pelle, come dermatiti da contatto e altri eczemi, orticarie da reazione a contatto. Quarte in classifica, le malattie psichiche, dallo stress fino alla depressione vera e propria. Quinte le patologie delle vie aeree superiori, con tutte le affezioni inerenti sostanze irritanti e infettive derivate».
A questa lunga lista vanno aggiunti gli atti di violenza di cui medici, professionisti e operatori sanitari sono vittime sempre più di frequente. «La campagna di disinformazione sanitaria operata mediante il mondo internet, i dubbi su grandi e gravi problemi medici e la falsa idea che la loro immediata risoluzione possa avvenire mediante la consultazione “dell’oracolo web”, ha portato ad una esacerbazione degli animi con manifestazioni, anche di violenza – sottolinea Cassini – tanto da passare dalle aggressioni verbali alle vere e proprie aggressioni fisiche. La risposta insensata alla violenza non è mai stata propria dell’educazione professionale del mondo medico e sanitario in generale. Si è giunti, però, ad un punto in cui tacere non è più bene, non è più salute, non è più esempio e, pertanto, quello che non si sarebbe adottato in passato, e cioè la denuncia, è oggi, a mio parere dovere. In generale, il mondo sanitario nel suo insieme è molto sensibile a tutti i tipi di violenza, che vengono abitualmente e costantemente denunciati e le denunce di qualsiasi altra natura sono fatte seguendo le vie burocratiche ufficiali. Da questo punto di vista gli infermieri appaiono molto attenti, più negligenti sono i medici».
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