Il vicepresidente del Consiglio degli Ordini dei Medici Europei spiega a Sanità Informazione quali sono le differenze (turni di lavoro, stipendi, formazione continua) tra la classe medica italiana e quella del resto del vecchio continente. E il quadro che ne esce non è dei migliori…
Continuano imperterriti le aggressioni e gli atti vandalici negli ospedali italiani. Fenomeno ancor più odioso in questo periodo di emergenza, in cui anche l’opinione pubblica sta prendendo atto dell’importanza del nostro servizio sanitario e del grande lavoro compiuto quotidianamente dal personale sanitario. Ma «gli episodi di violenza verso il personale sanitario sono in aumento in tutta Europa, non solo in Italia. Per questo abbiamo proposto di istituire una giornata europea contro le aggressioni ai medici. Questa giornata è il 12 marzo». È questo l’annuncio di Nicolino D’Autilia, vicepresidente (ed ex presidente) del CEOM (Consiglio degli Ordini dei Medici Europei), intervistato da Sanità Informazione per fare il punto della situazione sulle condizioni in cui lavora il personale sanitario italiano in relazione ai colleghi degli altri Paesi del vecchio continente. Ne esce un quadro in cui, di fronte ad una frattura abbastanza generalizzata in tutta Europa nel rapporto tra i pazienti e professionisti che operano in sanità (sia per quanto riguarda, come detto, le aggressioni, sia per quanto riguarda le richieste di risarcimento per danni da malpractice), il Ssn italiano non ne esce bene, trovandosi in posizioni di chiaro svantaggio rispetto ai “cugini” più avanzati, sia sul tema dei turni di lavoro massacranti che degli stipendi e della formazione continua.
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Dottor D’Autilia, anche nel resto d’Europa il personale sanitario è spesso vittima di aggressioni come qui in Italia?
«Direi che il problema delle aggressioni ai medici e a tutto il personale sanitario è comune in tutti i Paesi europei. Ci sono delle punte di maggior incidenza, come ad esempio il Belgio e la Spagna, oltre all’Italia naturalmente. Si tratta di un tema che è al centro dell’attenzione del CEOM, tant’è che abbiamo istituito uno specifico gruppo di lavoro, coordinato dal dottor Roland Kerzmann e del quale faccio parte, che si occupa proprio di raccogliere dati e informazioni inerenti la questione. Non solo, pochi mesi fa abbiamo lanciato una proposta, poi accettata, di istituire una giornata europea annuale contro la violenza sugli operatori sanitari. Questa giornata è il 12 marzo e servirà a sensibilizzare l’opinione pubblica».
Anche nel resto dei Paesi europei si è registrato un aumento di questo fenomeno negli ultimi anni?
«Assolutamente sì. Bisognerebbe indagarne le motivazioni. Alcune sono ovvie. Spesso si scaricano sui professionisti sanitari le tensioni generate da un servizio non particolarmente efficiente. Di certo è cambiato anche l’atteggiamento delle persone, che oggi si aspettano servizi sempre migliori e rispondenti alle loro esigenze, non a caso gran parte delle aggressioni avviene nei Pronto Soccorso. E poi ci sono alcune contingenze, una delle quali è tipicamente italiana, ovvero le guardie mediche, che a volte sono dislocate in situazioni particolarmente disagiate, come paesi di montagna, e qui è più facile per i malintenzionati avere mano libera. Devo anche dire però che non sempre le Aziende mettono in atto tutti i sistemi previsti dai vari contratti per garantire la sicurezza ai colleghi di guardia medica, soprattutto le donne».
Quindi il rapporto medico-paziente si è incrinato non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa…
«Sicuramente. Il rapporto tra medico e paziente è cambiato. C’è una aspettativa di risposte da parte dei pazienti che si è modificata nel tempo. Per questo le persone si aspettano delle risposte efficaci e immediate anche a bisogni che non hanno la caratteristica dell’urgenza. Poi c’è tutto un capitolo relativo al rifiuto dei familiari dei pazienti di accettare, ad esempio, il decesso di una persona cara senza ricevere una motivazione che sia per loro soddisfacente. Sono scene non dico da Far West ma quasi. Naturalmente, nell’ambito di una nazione come l’Italia ci sono situazioni più a rischio, specialmente in certe zone, che tutti conosciamo benissimo».
E per quanto riguarda invece le richieste di risarcimento?
«Secondo me il trend può anche essere in lieve aumento in Europa, ma è innegabile un dato di fatto, ovvero che la maggior parte dei procedimenti giudiziari, circa il 94-95% del totale, finisce con l’assoluzione del medico chiamato in causa. Quindi certamente anche qui si respira un clima differente, probabilmente che si basa su una crisi economica perdurante, per cui alcune persone pensano di poter raggiungere una certa tranquillità economica rivolgendosi ad avvocati che in Paesi come l’Italia o quelli anglosassoni ne approfittano, facendosi una grande pubblicità, sia sui media che con il passaparola».
Anche in questo caso, dunque, ciò che accade in Italia non è diverso da quel che succede nel resto d’Europa…
«C’è anche da dire che c’è una profonda crisi dei sistemi sanitari intesi in senso complessivo. Avviene in tutta Europa, in Francia, in Spagna, in Inghilterra. Ma questo succede perché è prevalsa, sta prevalendo e prevarrà sempre di più la necessità di affrontare le cronicità. È cambiata la domanda di salute. Fino a poco tempo fa non era così e quindi, per garantire le prestazioni migliori, è ovvio che si debba in qualche maniera organizzare, delimitare, ottimizzare».
Qui in Italia siamo abituati ad una cronica mancanza di personale che spesso costringe chi lavora nel Ssn a sopportare turni massacranti. Nel resto d’Europa com’è la situazione?
«Nel resto d’Europa ci sono situazioni molto diverse. Dalla Romania, ad esempio, dove c’è una gran quantità di medici, in molti emigrano, specialmente in Francia. Cominciano invece ad essere un po’ in difficoltà gli inglesi, anche se sinceramente non so cosa succederà con la Brexit. Chi sta messa meglio è la Germania, insieme ai Paesi del “blocco austroungarico”, diciamo, come l’Austria. C’è poi la Svizzera a continuare ad attrarre medici. Lì c’è una certa carenza e quindi, per prendere i migliori, vengono offerti lauti compensi. Gli stipendi dei camici bianchi svizzeri sono oggettivamente più elevati di quelli italiani».
Ecco, a proposito di stipendi, come siamo messi rispetto agli altri Paesi?
«È difficile fare un paragone, ma di sicuro non siamo tra i Paesi che pagano meglio. Una delle motivazioni principali per cui i nostri medici vanno sempre più spesso all’estero è proprio questa. Al di là ovviamente delle motivazioni professionali. Per restare in Svizzera, ad un medico di circa 35 anni possono tranquillamente affidare la direzione di un piccolo reparto. Una cosa impossibile in Italia»
Per concludere, la formazione ECM. In Italia non tutti rispettano l’obbligo formativo. Nel resto d’Europa?
«Questo è il punto dolente. Nel resto d’Europa la formazione continua viene seguita molto di più che in Italia. Il secondo problema riguarda il riconoscimento reciproco dei crediti ECM. Se ne sta occupando la Commissione Nazionale ECM per il tramite dell’organizzazione che gestisce i crediti EACCME a livello internazionale. Speriamo cambi qualcosa perché, al momento, i nostri colleghi italiani sono fortemente penalizzati, visto che gli viene riconosciuto solo la metà dei crediti acquisiti all’estero. C’è anche da dire che negli altri Paesi esistono processi di verifica di qualità che in Italia stentano molto a decollare. L’Italia insomma fatica molto ad andare avanti su questo argomento».
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