La Legge 77/2020 e poi la Conferenza delle Regioni hanno definiti compiti e ruolo di questa nuova figura professionale che avrebbe dovuto coprire una parte importante nella lotta al Covid. Draoli (FNOPI): «Numeri bassi. Le Regioni devono incominciare a progettare il futuro del territorio non pensando solamente al Covid»
Il Decreto Rilancio sembrava aver segnato la svolta attesa dal mondo della professione infermieristica: per potenziare l’assistenza territoriale il Governo Conte ha concesso alle aziende e agli enti del Sistema Sanitario Nazionale la possibilità di conferire incarichi di lavoro autonomo, anche di co.co.co, in numero non superiore a 8 unità infermieristiche ogni 50mila abitanti (in tutto 9.600), ad infermieri che non si trovino in costanza di rapporto di lavoro subordinato con strutture sanitarie e socio-sanitarie pubbliche e private accreditate. Il Decreto, poi convertito nella Legge 77 del 2020, aveva ricevuto anche l’avallo della Conferenza delle Regioni con linee di indirizzo che spiegavano bene l’inquadramento e i compiti dell’infermiere di famiglia: inserito nei servizi distrettuali, con competenze clinico-assistenziali e comunicativo-relazionali, al lavoro in stretta sinergia con il medico di Medicina Generale.
A quasi otto mesi dall’annunciata svolta, però, di assunzioni se ne sono viste molto poche. Eppure, in base al dettato legislativo, l’infermiere di famiglia e di comunità avrebbe dovuto occuparsi, tra le altre cose, della presa in carico sul territorio dei soggetti colpiti dal Covid-19, anche supportando le Unità speciali di continuità assistenziale, le famose USCA. Ad oggi però, secondo i dati forniti dalla Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche (FNOPI), solo il 10% dei 9600 infermieri di comunità è stato assunto.
«I numeri sono bassi rispetto alla Legge 77. Al momento non ha avuto un grande seguito – spiega a Sanità Informazione Nicola Draoli, Presidente OPI Grosseto e membro del Comitato Centrale FNOPI -. È anche vero che ci sono state molte assunzioni nel SSN per l’emergenza Covid o grazie al superamento del vincolo del tetto di spesa. Noi ci aspettiamo che le singole regioni o le singole aziende utilizzino il personale entrato a supporto del territorio per farlo diventare parte dell’infermieristica di famiglia o comunità».
Diversi i motivi che hanno portato a questa debacle: in primis la cronica carenza di infermieri, colpa anche di una cattiva programmazione degli anni passati, che la FNOPI stima in 53mila unità.
«Gli infermieri scarseggiano – ricorda Draoli -. Ci sono delle evidenze di tutto rispetto, come emerge dalle strutture private: in questo momento sono in ginocchio, a partire dalle RSA. Nel momento in cui il pubblico ha aperto le braccia in maniera un po’ più generosa, gli infermieri hanno scelto il pubblico. In questi mesi ne sono stati assunti qualche migliaio in pianta stabile – spiega ancora Draoli -. Ma non bastano a coprire una carenza che c’era già prima e a cui si aggiunge tutta l’attività Covid che sul territorio è ancora in essere. Ora poi arriva anche la vaccinazione di massa. Noi già stiamo vedendo che diverse regioni stanno facendo bandi esterni e non a caso in legge di Bilancio è stata inserita la possibilità di pagare extra orario di lavoro, a 50 euro l’ora, i dipendenti del SSN. Sono tutti indici che c’è una carenza di personale».
Altro tema è quello della grande diversità di approccio da parte delle regioni che, com’è noto, si muovono sempre in modo differente una dall’altra creando una mappa a macchia di leopardo.
«C’è grande differenza tra le regioni nell’offerta territoriale. Sulla rete ospedaliera, se si va a guardare i LEA, ci sono delle differenze importanti, che sul territorio diventano drammatiche. Dieci regioni non rispettano i LEA territoriali, solo 13 regioni hanno scritto i Patti territoriali. Le regioni che avevano già investito sul territorio trovano un substrato su cui far partire qualcosa», chiarisce il Presidente OPI Grosseto.
Le differenze tra regioni si sono manifestate plasticamente nelle USCA. In alcune realtà sono state pensate come comparto monoprofessionale medico, mentre in altre, come Toscana e Lazio, si è deciso di farle diventare una equipe medico-infermieristica. Una confusione che non fa bene al cittadino-paziente.
«Serve una seria intenzione da parte delle regioni a mettere in pratica tutto ciò che ormai è scritto sia nella legge 77 che nel Patto per la salute – conclude Draoli -. Le regioni devono incominciare a progettare il futuro del territorio non solamente pensando al Covid. In questo senso anche a livello di Mur e di governo bisogna incominciare a definire da subito una seria linea di programmazione sulla formazione infermieristica, a partire da quella di base, perché continuiamo ad essere fanalino di coda in Europa».
Nonostante le difficoltà, qualcosa si muove nei territori. E non mancano esperienze virtuose in cui l’infermiere di famiglia e di comunità riscuote successo. L’ultima a muoversi in ordine di tempo è stata la regione Piemonte, che ha stanziato 10 milioni di euro per il potenziamento della figura dell’infermiere di famiglia e di comunità.
Ma c’è chi è avanti con progetti ad hoc che mostrano le potenzialità di questa figura professionale: a Castel del Piano (Grosseto) con il progetto “Fuori dal guscio” l’infermiere di comunità è stato attivato specificatamente per chi soffre di dipendenze e patologie croniche. Sviluppa interventi di prevenzione secondaria rivolti a pazienti con patologie croniche tra cui dipendenza da abuso di alcol, dal gioco d’azzardo, dal fumo, obesità, diabete, malattie cardiovascolari.
In passato si era mossa anche l’Asl Roma 6, mentre in Liguria con il progetto “C.o.N.S.E.N.S.o” incentrato sui residenti dell’Alta Val Trebbia, in particolare sui Comuni di Fascia, Fontanigorda, Gorreto, Torriglia, Montebruno, Propata, Rondanina e Rovegno (paesi in cui la percentuale di anziani è circa il doppio dell’indice nazionale) quattro infermieri assistono le persone anziane promuovendo un invecchiamento sano e attivo e permettendo loro di vivere a casa il più a lungo possibile, attraverso il sostegno di interventi centrati sulla figura dell’infermiere di famiglia e comunità.
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