La figura professionale è nata negli anni ’80. La presidente ANIPIO: «Dopo oltre trent’anni la formazione è ancora inadeguata e non esiste un sistema di sorveglianza nazionale»
In Italia, ogni anno, muoiono 10.780 persone per infezioni ospedaliere da antibiotico-resistenza. Entro il 2050 le vittime saranno circa 450 mila, con un aggravio sulle casse del Sistema Sanitario Nazionale di almeno 12 miliardi di euro. Inoltre, come emerso dall’ultimo censimento della Società nazionale degli infermieri specialisti del rischio infettivo (ANIPIO), condotto poco prima dello scoppio della pandemia da Covid 19 e aggiornato nel mese di ottobre del 2021, mancano i professionisti che si occupano del controllo delle infezioni.
«Gli infermieri specialisti in rischio infettivo attualmente presenti nelle strutture pubbliche italiane sono 497 e neppure tutti impiegati a tempo pieno – dice Maria Mongardi, presidente ANIPIO, citando il censimento effettuato dalla stessa Società scientifica che presiede -. Tra questi, 42 hanno iniziato a svolgere la loro attività durante la pandemia. Un numero, che stando agli standard fissati dall’allora Ministero della Sanità (con la circolare n.8 del 1988) di un infermiere specialista ogni 250 posti letto, totalmente insufficiente – sottolinea la presidente ANIPIO -. Le presenze dovrebbero essere almeno raddoppiate». Usare il condizionale è d’obbligo: dall’emanazione della circolare, infatti, sono trascorsi 33 anni ed è molto probabile che le esigenze si siano modificate nel tempo. «Basti pensare – spiega la presidente ANIPIO – che negli anni ’80 queste infezioni erano ritenute esclusivamente ospedaliere, mentre oggi sono più generalmente definite “infezioni correlate all’assistenza”. I setting di cura sono cambiati e si sono estesi oltre i confini delle mura nosocomiali, arrivando fino alle case dei pazienti. Inoltre, in questi decenni, c’è stata una proliferazione dei microrganismi antibiotico-resistenti.
Ad oggi, nonostante sia un dato di fatto che nel 2021 ci sia ancora chi perde la vita a causa della resistenza agli antibiotici, in Italia non esiste un sistema di sorveglianza specifico. «Le tipologie di infezioni più a rischio sono sei: polmonari, del sangue, della cute e tessuti molli, intestinali, del sito chirurgico e urinarie. Gli ultimi dati che abbiamo sulla loro diffusione negli ospedali italiani risalgono al biennio 2016-17, ma non si tratta di cifre esaustive. La partecipazione al monitoraggio è su base volontaria e non tutte le strutture ospedaliere italiane hanno aderito. E, spesso, le realtà non aderenti coincidono anche con quelle che prestano meno attenzione alla problematica dell’antibiotico resistenza» sottolinea l’esperta.
Oltre al numero di professionisti, secondo ANIPIO, è inadeguata anche la formazione degli operatori sanitari e sociosanitari che si occupano della prevenzione, controllo e sorveglianza delle infezioni ospedaliere. «Dagli anni’80 si sono susseguiti vari tentativi di corsi di specializzazione e master – spiega Mongardi -, la maggior parte dei quali finiti in un nulla di fatto. Poi, dal 2014, la nostra Società scientifica è diventata promotrice della formazione in quest’ambito, stipulando convenzioni con alcune università, come quella di Parma, la Magna Grecia di Catanzaro, Tor Vergata di Roma e Vanvitelli di Napoli».
I percorsi di studio dedicati alla specializzazione in rischio infettivo sono suddivisi in 5 macro-aeree: prevenzione, controllo, sorveglianza, formazione e management. «In ambito di prevenzione, l’infermiere specialista del rischio infettivo ha il compito di promuovere le buone pratiche, come ad esempio la corretta gestione di una ferita chirurgica, l’utilizzo appropriato dei dispositivi di protezione, il rispetto delle norme di igiene sia individuali che collettive. La seconda competenza dell’infermiere specializzato è il controllo, ovvero il compito di monitorare che siano rispettati tutti i protocolli e le direttive emanate in materia, sia a livello centrale che nelle singole strutture. Attraverso la sorveglianza (la terza mansione citata) – aggiunge Mongardi – sarà possibile raccogliere i dati epidemiologici relativi ai singoli casi di infezione verificatisi in ogni struttura. Gli infermieri specialisti in rischio infettivo, poi, hanno il compito di formare sia pazienti che sanitari. Acquisendo competenze di management, infine, l’infermiere specializzato può gestire la collaborazione multidisciplinare tra tutti i sanitari che rientrano nella gestione del rischio infettivo, dall’infettivologo, al microbiologo, fino al chirurgo e altri operatori sanitari e socio sanitari».
Promuovere la formazione è tra gli obiettivi della Missione 6 del PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. In particolare, è stato redatto un piano straordinario di formazione dedicato proprio alle infezioni ospedaliere che prevede la partecipazione di circa 150 mila sanitari entro la fine del 2024 e 140 mila entro la metà del 2026. «Posti che auspichiamo – conclude Mongardi – possano essere ragionevolmente distribuiti tra medici, infermieri, tecnici di radiologia, ostetriche e operatori socio sanitari, tutti professionisti coinvolti, a vario titolo, nell’infection control».
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