«L’intramoenia è un’attività marginale dei medici, svolta al di fuori dell’orario di lavoro, che in sette anni ha fatto guadagnare alle aziende sanitarie oltre 1 miliardo di euro. Soldi che dovevano essere destinati anche alla riduzione delle liste d’attesa. Lo hanno fatto?». Intervista al presidente della Cimo Guido Quici
Il messaggio emerso dall’incontro dedicato all’intramoenia, organizzato dal Collegio italiano dei chirurghi, intende ribaltare l’idea secondo cui la libera professione contribuirebbe all’allungamento delle liste d’attesa. Al contrario, si tratta di «un’attività marginale a cui i medici, vista l’organizzazione dei turni e dell’orario di servizio, non possono dedicare molte ore, svolta ad ogni modo al di fuori dell’orario di lavoro, che fa guadagnare al professionista il 30% del costo sostenuto dal paziente e che indirettamente contribuisce, al contrario di quel che si pensa, alla riduzione delle liste d’attesa», ha dichiarato il presidente della Cimo Guido Quici, tra i relatori intervenuti al convegno.
È questo il nocciolo del discorso, il fil rouge di tutta la discussione. Il nuovo Piano nazionale liste d’attesa e la prima bozza del decreto legge ‘Semplificazione’, infatti, intervengono a gamba tesa sull’intramoenia: ne prevedono una interruzione in caso di superamento dei limiti temporali previsti per l’erogazione di prestazioni ambulatoriali e ricoveri. Se quindi l’attesa è troppo lunga, il medico non potrà fornire la prestazione in regime di libera professione. Si instaura allora un legame di causa-effetto tra intramoenia e liste d’attesa che, a detta dei partecipanti del convegno, in realtà non c’è.
«Anche se la libera professione venisse sospesa – spiega Quici a Sanità Informazione – le liste d’attesa non ne beneficerebbero in alcun modo, perché se l’offerta sanitaria istituzionale è limitata, i tempi di attesa saranno sempre lunghi. Bisogna invece aumentare il personale, adeguare le tecnologie e motivare i medici. Questo disegno di legge, invece – prosegue il presidente Cimo – fa esattamente l’opposto, e tende inoltre ad incentivare i medici a lavorare nel privato, e quindi i pazienti a non rivolgersi più a strutture pubbliche. Inoltre – continua – si pone fine al rapporto fiduciario medico-paziente che, senza la possibilità dell’intramoenia e con tempi di attesa biblici per una prestazione, si troverebbe costretto a pagare un altro professionista, che magari non l’ha seguito durante il ricovero. Insomma, è un meccanismo demenziale».
Ma l’intramoenia, si diceva al convegno, contribuisce anche alla riduzione delle liste d’attesa e all’ammodernamento delle strutture, ad esempio. È ancora Quici a corredare queste dichiarazioni di numeri e tabelle: «Tra il 2010 ed il 2016 – spiega – in media le aziende sanitarie hanno ricavato dalla libera professione tra i 164 ed i 228 milioni di euro l’anno; in totale, secondo i nostri calcoli, hanno accumulato un tesoretto pari a 1 miliardo 225 milioni che dovevano essere destinati a ridurre le liste d’attesa o ad adeguare il parco tecnologico. Lo hanno fatto? Sono stati stanziati 350 milioni per la riduzione delle liste d’attesa, ma oltre ai nuovi finanziamenti bisognerebbe vedere per cosa le aziende hanno utilizzato questi soldi».
Infatti, come anticipato, solo una percentuale del costo della prestazione va nelle tasche del medico: «Se una visita ortopedica in regime di intramoenia costa al paziente 124 euro – dichiara Quici – il medico ne guadagna 40. Perché è supertassata, ci si paga la quota Enpam e una parte va, appunto, all’azienda. Inoltre il 5% della tariffa va a finire nel fondo per ridurre le liste d’attesa, che quindi, in caso di eliminazione dell’intramoenia, sarebbe definanziato. Bel paradosso, no?».