Il presidente dell’associazione Salutequità spiega: «Per non interrompere assistenza ai pazienti non Covid serve più personale, strategia stop&go non più sostenibile». E aggiunge: «Non basta aumentare gli organici ad invarianza di modelli professionali e organizzativi». Anche con la stabilizzazione dei precari Covid mancheranno all’appello 30mila infermieri
Se non si interviene con politiche mirate dedicate al personale sanitario, i vuoti di organico che già oggi, nonostante gli innesti operati durante il Covid, caratterizzano molte professioni sanitarie, rischiano di aumentare drammaticamente. È l’allarme lanciato da Salutequità, associazione che si dedica all’analisi dell’andamento e dell’attuazione delle politiche sanitarie e sociali. Ad aggravare la situazione l’emergenza Covid che distrae ulteriori risorse, con la conseguenza che sempre più spesso visite e operazioni non Covid vengono rimandate.
«Una strategia stop&go che non è più accettabile» sottolinea a Sanità Informazione Tonino Aceti, fondatore e presidente di Salutequità ed ex portavoce della FNOPI. «C’è la necessità di riprendere a curare tutti, dobbiamo ragionare già oggi per non continuare a interrompere l’assistenza ai pazienti non Covid: per questo c’è bisogno di più personale. La situazione attuale, con la riconversione dei reparti e la sospensione delle attività ordinarie non avrebbe dovuto ripresentarsi nuovamente dopo due anni. Si è ripresentata perché sul tema siamo tornati alla strategia di inizio pandemia: a dicembre è stata diffusa una circolare alle Regioni che faceva riferimento a una circolare di marzo 2020. Questa strategia non è più sostenibile».
A destare preoccupazione sono i numeri che fotografano una situazione complicata: tra pochi anni mancheranno all’appello circa 25mila camici bianchi, soprattutto specialisti e medici di medicina generale che diminuiscono al ritmo di oltre 6mila l’anno per l’insufficiente ricambio. Non va meglio agli infermieri, con le stime della Federazione degli Ordini che parlano di carenze pari a 63mila unità, ma i calcoli dell’Università Bocconi superano le 101mila e quelli di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari, parlano di una carenza di non meno di 80mila professionisti.
Durante la pandemia, sono 31mila gli infermieri chiamati in servizio con contratti precari, 8mila dei quali saranno stabilizzati con la norma inserita nell’ultima legge di Bilancio: «Ma se anche fossero stabilizzati gli altri 23mila infermieri, ne mancherebbero comunque in organico 30mila» spiega Aceti.
Secondo Aceti, anche con la stabilizzazione dei precari assunti durante l’emergenza Covid, mancheranno all’appello 30mila infermieri, un vuoto importante.
«La prima azione da mettere in campo è quella di continuare a investire sempre di più sul personale sanitario – spiega Aceti -. I provvedimenti varati durante la pandemia hanno messo una toppa a un problema che si è palesato in tutta la sua drammaticità e che veniva da lontano, da una gestione economicista della sanità caratterizzata dai piani di rientro e dal blocco del turn over. Durante la pandemia ci siamo trovati con un problema enorme di personale al quale abbiamo provato a dare una risposta che però non è ancora sufficiente».
Il tema, però, è più ampio, e coinvolge anche le retribuzioni che per il comparto sanità sono ai minimi europei. Secondo Salutequità, gli aumenti lordi dell’ultimo contratto 2016-2018 del comparto svaniscono applicando gli indici di parità di potere di acquisto al valore del 2009: la differenza 2019-2009 resta positiva per la dirigenza sanitaria e va in rosso per il comparto (il personale non dirigente medico e non medico) con un massimo di circa -2.850 euro per il personale del ruolo tecnico sanitario e un minimo, sempre in media, di -2.165 circa per il personale infermieristico.
«C’è una sperequazione troppo ampia nelle retribuzioni tra comparto e dirigenza medica e non medica – continua il presidente di Salutequità -. Abbiamo bisogno di ridurre le diseguaglianze, avere una retribuzione all’altezza delle loro competenze e anche del rischio che assumono nel loro lavoro. La narrativa sugli eroi che leggiamo sui giornali da quando è iniziata la pandemia non corrisponde ai fatti che la politica mette in campo. Se noi non colmiamo questa criticità dal punto di vista del riconoscimento del valore del lavoro dei professionisti, si avranno professionisti sfiduciati nei confronti del SSN con un effetto diretto sull’assistenza e molti di loro si orienteranno verso il privato».
Secondo Aceti bisogna poi intervenire «sui modelli professionali, sui percorsi di formazione del personale, sui modelli professionali di ciascuna professione. Non basta aumentare gli organici ad invarianza di modelli professionali e organizzativi. Dobbiamo innovare le politiche del personale ed entrare nel merito delle competenze di ciascuna professione».
Il tema centrale, dunque, resta quello delle risorse: il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza porterà risorse importanti nella sanità, ma senza interventi e risorse sul personale rischia di essere una scatola vuota. «La scelta della salute deve prevalere sull’economia, sulla sanità c’è bisogno di fare un investimento di lungo periodo perché pandemie di questo tipo si potranno ripresentare – conclude Aceti -. Dobbiamo programmare ora considerando scenari futuri possibili ma non certi. Questo stona con i ragionamenti che fa il MEF ogni anno, orientate più sul presente. Passata questa pandemia il rischio è che si torni al vecchio registro. Il PNRR va bene, ma bisogna ragionare su come spendere le risorse e affiancare fondi per il personale nel lungo periodo. Se dopo il 2026 si ritorna alla vecchia politica del blocco del turn over, nelle nuove strutture che avremo creato nel Paese non ci sarà nessuno».
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