«Hanno anche provato a cavarmi un occhio». Il racconto dell’infermiera del Cardarelli di Napoli: il trauma, la paura, la speranza che la giustizia faccia il suo corso
La storia di Loredana Esposito, infermiera di Pronto Soccorso all’Ospedale Cardarelli di Napoli, è una storia di passione. Passione per il suo lavoro, svolto in trentadue anni di servizio con abnegazione e capacità. Passione come calvario, fisico e psicologico, a seguito dell’episodio subìto la notte tra il 4 e il 5 dicembre 2020. Dopo quella notte la sua vita personale e professionale è cambiata per sempre. È lei stessa a raccontarci quello che è successo, e il suo racconto è un viaggio nell’orrore. Un orrore che troppo spesso si consuma negli ospedali e nei Pronto Soccorso di tutta Italia e di cui sono tristemente piene le cronache. Ma il racconto dell’infermiera Esposito non si ferma a quella notte. Perché nessuna aggressione ai danni degli operatori sanitari si consuma senza lasciare dietro di sé macerie, la sequela di strascichi morali e materiali, l’insonnia, la paura delle ritorsioni, talvolta il demansionamento a seguito di disturbo da stress post-traumatico, la sfiducia in una giustizia troppo lenta e per le donne, in alcuni casi, la perdita atroce di una parte di sé. Questa è la sua storia.
«Ero al mio turno di notte nel pre-triage, erano circa le nove di sera e stavo compilando i dati di una ragazza di 19 anni, appena arrivata, che lamentava dolore toracico. A minuti avrei finito e la ragazza sarebbe entrata per essere visitata, quando è entrato il padre della ragazza scavalcando il pre-triage, senza rilevare la temperatura all’ingresso e senza mascherina sul volto. Vedendo la figlia ancora in attesa, ha iniziato ad inveire contro noi operatori, strattonandomi per un braccio e accusandomi di non stare facendo il mio dovere, cosa che invece stavo facendo. La vigilanza lo ha allontanato e io ho completato la scheda della figlia, ma intanto è arrivata anche la madre della ragazza istigando il marito contro di me. Sono arrivati i Carabinieri chiamati da qualcuno, hanno identificato gli aggressori che erano già noti alle forze dell’ordine e intimato loro di uscire. Nonostante fossi molto provata, ho deciso di restare in postazione per non lasciare la squadra sottonumero: al tempo eravamo nel pieno della seconda ondata di Covid e l’ospedale era messo a dura prova. La ragazza intanto era stata visitata ed era su una barella all’interno del Pronto Soccorso ma, nonostante il riferito dolore toracico, si alzava di continuo per urlarmi minacce, anche di morte. Io la ignoravo. Verso le tre di notte sono dovuta entrare nell’area dei codici gialli per reperire un farmaco per un altro paziente, ed è stato allora che la ragazza mi è arrivata alle spalle, mi ha spinto contro il muro tirandomi i capelli, dandomi calci e schiaffi. Mi sono accorta che dietro di lei c’erano di nuovo i suoi genitori. Anche loro hanno iniziato a picchiarmi. Mi sono accasciata a terra, ed è stato allora che mentre una mi teneva ferma, l’altra cercava di cavarmi un occhio con le dita. Ricordo ancora il dolore e la pressione, ero convinta che alla fine ci sarebbero riusciti. Sono riuscita a liberarmi non so neanch’io come, non prima di aver ricevuto un ultimo calcio sul torace che, come avrei scoperto qualche giorno dopo, mi ha provocato fratture multiple scomposte delle costole. La prima TAC che ho fatto immediatamente non le evidenziò. Poi ho atteso che i miei familiari arrivassero per riportarmi a casa».
«Nei giorni successivi tutti i dolori per le percosse si sono acuiti, ma c’era un punto preciso che mi doleva in modo particolare. Ho poi iniziato ad avere dispnea, e ho chiesto a mio figlio di accompagnarmi a fare di nuovo una TAC, che stavolta ha rilevato le fratture. Sono stata due mesi e mezzo a casa, dopodiché sono stata reimmessa in servizio, ma il medico legale mi ha esonerata dal reparto operativo in Pronto Soccorso e dai turni notturni a causa delle mie condizioni fisiche e psicologiche. Ora lavoro solo la mattina, con mansioni amministrative che sto imparando man mano, con tutta la frustrazione che ne consegue, perché a me piaceva il lavoro di Pronto Soccorso: per me era una vocazione prima ancora che un mestiere, è quello per cui mi sono specializzata e in cui ho dato l’anima per trentadue anni. Io il Pronto soccorso ce l’ho nel DNA. Ad oggi, a parte i postumi fisici con movimenti che non riesco ancora a compiere senza provare dolore, soffro di alopecia dovuta all’ansia, e ho problemi a stare in ambienti dove le persone discutono a voce alta».
«Purtroppo sì. Ventidue anni fa subii un’altra aggressione, all’epoca ero incinta. Al quinto mese di gravidanza persi il bambino, a causa del distacco di placenta provocatomi dall’aggressione. Un giorno il bambino c’era e scalciava, il giorno dopo non c’era più. Ero sotto choc, in quel momento ebbi la sensazione di aver perso tutto. Sono passati ventidue anni, oggi ho due figli, ma quella è una ferita che non si rimarginerà mai. Altre piccole aggressioni ci sono state nel corso degli anni, ma purtroppo nel nostro lavoro è frequente».
«Per l’aggressione di ventidue anni fa l’ospedale non si costituì parte civile e io persi la causa, nonostante la perizia avesse accertato che l’aborto era stato diretta conseguenza dell’aggressione. Per l’aggressione di dicembre, invece, la pratica è ancora in stand-by. Gli aggressori sono a piede libero, subito dopo i fatti di quella notte sono scappati e la ragazza non ha neanche aspettato i risultati degli esami. Nei giorni successivi ho vissuto nel terrore che potesse succedere qualcosa ai miei figli. Mi sono rivolta ad un avvocato di fiducia per il risarcimento dei danni morali, ma ho ricevuta tantissima solidarietà da tutta Italia e tante offerte di patrocinio gratuito. Sono consapevole di quanto la giustizia italiana vada a rilento, ma ho scelto di non arrendermi».
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