Jennifer Piazzoni racconta a Sanità Informazione il suo lavoro nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo: «Ho dovuto fare i conti con le mie emozioni. I pazienti che escono dalla terapia intensiva sono confusi e disorientati. Devono ricominciare a vivere: non hanno né mangiato né parlato per settimane»
«“Ma allora non morirò?”. Mi sembra di averlo ancora davanti agli occhi lo sguardo di quell’uomo che, appena uscito dalla rianimazione, pronuncia le sue prime parole». Jennifer Piazzoni, logopedista dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, racconta a Sanità Informazione la sua esperienza all’interno del reparto di terapia sub-intensiva dedicato ai pazienti Covid.
L’ospedale bergamasco è uno dei più coinvolti nella lotta al Covid-19 e, nemmeno durante la fase 2, il personale sanitario può abbassare la guardia: «Mentre i contagi calano e le terapie intensive si svuotano – spiega la logopedista – il carico di lavoro non diminuisce affatto. Semmai cambiano i bisogni dei nostri pazienti. Per noi logopedisti, come per tutti i professionisti della riabilitazione, questi saranno i giorni di maggiore impegno».
Molti dei pazienti affetti da Covid-19, finiti in terapia intensiva, per riaffacciarsi pian piano alla vita devono riacquisire alcune capacità primarie, quasi come fossero dei bambini: «Dopo aver trascorso dai trenta ai sessanta giorni in rianimazione per ricominciare a parlare, a deglutire o a mangiare per bocca è necessario seguire un preciso percorso di riabilitazione, logopedia compresa – dice Piazzoni -. L’intubazione prolungata, infatti, ha un impatto sia sulla fonazione che sulla deglutizione, entrambi aspetti di cui si prendono cura proprio i logopedisti. Anche se, in Italia – sottolinea l’esperta – non ci sono dei protocolli standardizzati e validati per questo tipo di intervento. Ma grazie al gruppo di lavoro di logopedia in area critica, costituito prontamente dalla Federazione dei logopedisti italiani (FLI), è stato possibile mettere a punto, in poco tempo, un protocollo condiviso per affrontare questa pandemia».
Un’emergenza che pur avendo colto di sorpresa l’intera nazione è stata affrontata con la massima professionalità: «Nonostante mi sia trovata a lavorare in uno degli ospedali che ha accolto e curato il maggior numero di pazienti affetti da Covid-19, non ho mai avuto paura. Non ho mai temuto che mi potesse accadere qualcosa, così come non mi sono mai sentita impreparata a gestire la situazione. Sì, sicuramente ci sono stati dei momenti di confusione, specialmente durante i primi giorni, in cui è stato necessario riorganizzare le attività ed alcuni reparti. Dopodiché, mi sono sempre sentita protetta, i dispositivi di protezione non sono mai mancati e l’ospedale ha provveduto ad organizzare, fin dal primo momento, lezioni sulle procedure di vestizione e svestizione, sull’impiego dei DPI e corsi di formazione sulle nuove conoscenze che man mano si raccoglievano sul Covid-19».
Ma l’eccellente preparazione professionale non sempre è sufficiente a tenere a bada le emozioni, specialmente in una situazione di emergenza straordinaria, come quella vissuta durante la fase più critica della pandemia: «Quando sono stata assegnata al reparto di terapia sub-intesiva Covid ho dovuto fare i conti con un forte impatto emotivo. I pazienti che avevo di fronte erano persone che, nella maggior parte dei casi, avevano smesso di avere contatti con il mondo esterno da parecchi, troppi giorni. Persone che non avevano più nemmeno potuto parlare a causa dell’intubazione. Erano confuse, disorientate. E come logopedista avevo il compito di guidarle verso un nuovo inizio: spettava a me aiutarle a pronunciare la prima parola o ad ingoiare il primo boccone di cibo».
Ma se il carico emotivo è enorme, la soddisfazione è altrettanto grande: «Quando si conosce un nuovo paziente – dice Piazzoni – e ci si presenta come riabilitatore, negli occhi della persona che abbiamo di fronte si accende una speranza. “Dobbiamo riprenderci, dobbiamo rimetterci in forza”, dico sempre ai miei pazienti al primo incontro. Ed è in quel momento che le persone comprendono davvero di avercela fatta, di essere uscite dal tunnel della sofferenza».
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