La storia surreale di un professionista sanitario a cui ogni mese vengono sottratti 730 euro dalla busta paga. «Non sapevo che l’Azienda non avesse copertura assicurativa, mentre la mia ha trovato un cavillo e non ha pagato»
È possibile che un medico, dipendente di un’azienda ospedaliera, coperto da un’assicurazione personale e da quella dell’azienda stessa, si ritrovi a dover pagare una cifra superiore ai 100mila euro di tasca propria per una complicanza che ha provocato un danno, tra l’altro neanche così importante, ad un paziente durante un’operazione? È possibile che il suo nome divenga di dominio pubblico, comparso sulle pagine di giornali locali e nazionali, distruggendolo psicologicamente e compromettendo seriamente la sua attività lavorativa? Che domande…
A causa di una complicanza durante un esame di polipectomia eseguita dal dottor R., un paziente subisce una microperforazione. Niente di grave, comunque, dato che questi si riprenderà e, dopo pochi mesi, citerà il medico e la struttura per malpractice, chiedendo un risarcimento di circa 250mila euro. Il dottor R., che mai aveva dovuto affrontare una situazione del genere, non sa bene come muoversi. Ci pensa la sua azienda a tranquillizzarlo: «Nessun problema – gli viene detto –, ci occupiamo noi di tutto». Gli indicano anche un avvocato fidato. E poi, sia lui che l’azienda sono coperti dall’assicurazione. Quindi, anche se le cose dovessero mettersi male, non sarà una tragedia.
«E invece poi scopro che l’assicurazione dell’azienda era in liquidazione – spiega il dottor R. a Sanità Informazione – e la mia, seppur condannata insieme all’azienda al risarcimento, trova un cavillo e stabilisce che non pagherà un euro». Il giudice civile di primo grado, infatti, condanna sia l’azienda che l’assicurazione del dottor R. al risarcimento dei danni. Ma l’azienda non è coperta e l’assicurazione personale si tira indietro, nonostante tutti i premi fin lì riscossi. «La compagnia con cui avevo stipulato una polizza – spiega ancora – ha fatto ricorso in appello, ottenendo una sospensiva dell’esecuzione della sentenza, solo per la parte che le riguarda. Quindi, alla fine, a pagare dovevamo essere l’azienda e il sottoscritto».
L’azienda, condannata in primo grado, paga l’intera somma. Dopo un paio di mesi emana però una delibera con cui pretende dal dottor R. la restituzione del 50% del risarcimento effettuato. «Si è scatenato un putiferio – spiega il dottor R. –. I sindacati si sono mobilitati contro questa decisione. Era la prima volta che accadeva un fatto del genere». Nonostante tutto, però, l’azienda non fa marcia indietro e il dottor R. si ritrova uno stipendio ridotto di 730 euro. Per pagare tutta la somma richiesta dovrà “ridare” all’azienda 730 euro al mese per 140 mesi.
«A questo punto mi rivolgo al giudice del lavoro. Purtroppo, in periodo Covid non c’è presenza dei legali e, travisando un po’ l’istanza che avevo presentato in merito alla legittimità di questa delibera, risponde che non può entrare nel giudizio, in quanto non può modificare una sentenza del giudice civile». E quindi l’azienda continua a decurtare lo stipendio del suo dipendente fino a quando questi, che aveva preso parte ad un concorso anni prima (e poi vinto), decide che è il momento di andar via. Decade dunque la possibilità da parte del suo ex datore di lavoro di continuare a sottrargli 730 euro al mese.
«Arriva un altro atto di precetto in cui la mia ex azienda chiede che io paghi, in maniera immediata, la somma restante. E lo fa senza neanche aspettare il giudizio di appello sia del giudice del lavoro che della causa civile contro la mia assicurazione». Siamo a maggio 2021. La prima sentenza arriverà ad ottobre, la seconda a dicembre. «Ma l’azienda ha deciso di non aspettare e procede. Così mi ritrovo costretto a fare una transazione e accetto di pagare una provvisionale, per evitare il pignoramento dello stipendio. Mi ritrovo quindi di nuovo a dover dare 730 euro al mese alla mia ex azienda».
Come se tutto ciò non bastasse, come se il dottor R. ne avesse prese troppo poche, succede che la sua identità diventa di dominio pubblico e finisce sui giornali locali e su qualche nazionale. «Questo è accaduto perché il mio nome è stato scritto per esteso sulla delibera e non è stato fatto nulla per tutelare la mia privacy».
Il dottor R. non può crederci. In pochi giorni anche il suo rapporto con i colleghi e i suoi pazienti è compromesso: «Una mazzata incredibile. È una cosa che psicologicamente ti devasta. Quando esce una notizia del genere, il diretto interessato viene sempre visto con sospetto. Si pensa “ha già fatto un guaio, di sicuro ne farà un altro”. Camminavo rasentando i muri perché tutto l’ospedale aveva saputo ciò che era successo e anche la mia attività privata ne ha risentito parecchio».
Ed è questa la parte che al dottor R. fa più male. Essere additato come delinquente o come professionista che non sa fare il suo lavoro, il tutto per una complicanza «tutto sommato piccola, che ha generato danni limitati», e alla quale «ha fatto seguito una richiesta di risarcimento spropositata rispetto al fatto», proprio non gli va giù. E tutto questo perché la sua ex azienda, dopo avergli chiesto soldi «perché non aveva copertura assicurativa, non ha ritenuto necessario tutelare» la sua privacy.
Come detto, entro fine anno saprà se la giustizia gli darà ragione o meno. Ma intanto la sua vita professionale e privata è segnata in maniera forse irreversibile. Ma quanti altri professionisti sanitari hanno passato quel che ha passato (e che continua a vivere) il dottor R.?
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