Atteggiamenti vessatori, anche non continuativi, che influiscano negativamente sui lavoratori rientrano nel danno da “straining”, che deve essere risarcito. In Italia oltre un milione di casi: le quattro prove inequivocabili
Mobbing, stalking, straining: il glossario della violenza psicologica sul luogo di lavoro si arricchisce di termini internazionali che raccontano, però, una realtà anche italiana fatta di vessazioni, umiliazioni e persecuzioni vissuta da oltre un milione e mezzo di lavoratori (dati Ispesl – Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro).
Tuttavia, il percorso giudiziario per il riconoscimento della condotta mobbizzante contro il lavoratore è complesso per il rigore dei presupposti richiesti. «Alla prova dei fatti, – sottolinea il network legale Consulcesi & Partners – spesso la domanda giudiziale del lavoratore viene rigettata, soprattutto per la difficoltà nel dimostrare il collegamento funzionale fra i singoli episodi vessatori che devono ripetersi in uno stretto arco temporale ed essere manifestazione dello stesso intento persecutorio».
Per non lasciare impuniti quei comportamenti che, pur non rientrando appieno nella categoria del mobbing, mostrano comunque evidenti profili illeciti meritevoli di tutela in favore del lavoratore danneggiato, la giurisprudenza ha individuato il cosiddetto “straining”. «Si tratta, in sostanza, – spiega Consulcesi & Partners – di una forma più lieve del mobbing, che si realizza in condotte vessatorie imputabili a superiori, colleghi e datori di lavoro che, seppur caratterizzate dall’assenza di continuità, provocano nel lavoratore un danno permanente, con conseguente riflesso sulla sua situazione psico-fisica e morale».
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In pratica, affinché possa configurarsi lo straining, è sufficiente anche una sola azione, purché i suoi effetti (ovviamente negativi) siano duraturi nel tempo. Ad esempio, in alcune sentenze si è configurato il danno da straining nei casi di demansionamento, di trasferimento in condizioni disagiate, di persistenti atteggiamenti di superiorità, fino a sanzionare atti di disprezzo o di scherno.
Di recente la Cassazione ha riaffermato il principio per cui, nel caso in cui un lavoratore richieda il risarcimento di danni causalmente correlati ad una pluralità di condotte vessatorie imputabili al datore oppure ai colleghi di lavoro, il giudice deve comunque valutarne la rilevanza, anche se i fatti non sono legati da un comune intento persecutorio, giungendo ad una declaratoria di responsabilità del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per quei danni (alla salute, all’immagine, alla vita di relazione o quant’altro) causalmente scaturiti dai singoli comportamenti lesivi (Cass. Civ. Lav. ord. 16256/2018).
Per quanto riguarda i danni, secondo Consulcesi & Partners: «Possono variare dalle conseguenze di natura psico-fisica, ad esempio una patologia insorta a causa della vessazione subita, a quelle di natura puramente morale, ma non è preclusa la possibilità di ottenere il ristoro del danno patrimoniale, sempre che sia dimostrata la riconducibilità causale all’evento lesivo occorso al dipendente».
Ma quali sono le prove di cui ha bisogno il dipendente vittima di straining?
Consulcesi & Partners, forte della pluriennale esperienza maturata nel settore della piena tutela dei diritti dei professionisti sanitari, offre attraverso la collaborazione con primari studi nazionali ed internazionali un servizio completo di consulenza ed assistenza, sia stragiudiziale che giudiziale, nelle maggiori aree di interesse legale attraverso gli oltre mille consulenti che rispondono al numero verde 800.122.777 o sul sito www.consulcesiandpartners.it.
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