Tiziana Maniscalchi, nominata cavaliere della Repubblica, si racconta a Sanità Informazione: «Apprendere per la prima volta della positività di un collega al Covid-19 è stato il momento più difficile. La soddisfazione più grande è il successo terapeutico ottenuto dal nostro ospedale con i monoclonali. Oggi, i no vax che rifiutano le cure mettono a dura prova i nostri sentimenti»
«Il Covid-19 è la malattia della solitudine e noi sanitari siamo gli unici a poter placare quella dei nostri pazienti. Se nella nostra professione non ci fosse stata una componente umana così potente, allora sarebbe prevalsa la disperazione dell’impotenza». È così che Tiziana Maniscalchi, direttrice del Pronto soccorso Covid dell’ospedale Villa Sofia Cervello di Palermo racconta, a Sanità Informazione, la sua esperienza sul fronte dell’emergenza Covid-19. Un impegno così autentico da averle fatto meritare la nomina a cavaliere della Repubblica. La stessa onorificenza è toccata ad Aroldo Rizzo, direttore sanitario dello stesso ospedale. Il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha consegnato l’onorificenza di commendatore della Repubblica a Baldo Rizzo, direttore della terapia intensiva dell’ospedale. A Francesco Pitrolo, direttore dell’unità di cardiologia, è stata attribuita la massima onorificenza di cavaliere di gran croce al merito della Repubblica.
«Nomine che – commenta Walter Messina direttore generale di Villa Sofia Cervello – fanno onore alla nostra Azienda. Per questo – aggiunge – colgo l’occasione per manifestare più ampiamente un vivo ringraziamento a tutto il personale dei nostri ospedali per l’abnegazione e l’instancabile impegno profuso durante la pandemia». Una gratitudine condivisa anche da Tiziana Maniscalchi che dedica l’onorificenza ricevuta a tutti gli operatori che da due anni sono al suo fianco: «Senza di loro non avrei mai raggiunto questi traguardo – assicura -. La nostra forza è l’unione. Dedico questa onorificenza anche a tutti i colleghi che, durante questa battaglia, hanno perso la vita».
«Siamo in una situazione di estrema criticità. Il pronto soccorso lavora sempre in condizioni di “emergenza”, ma la pandemia ha nettamente aumentato il carico di lavoro da gestire. Speriamo che questo picco si raggiunga al più presto, così da poter avere una riduzione del numero di accessi».
«Sì per i numeri, ma non per intensità di cura. Il tasso di occupazione delle terapie intensive, a parità di ricoveri, è nettamente inferiore a quello della prima ondata. È un’ulteriore dimostrazione dei benefici da vaccino. Ma non è l’unica. Le condizioni dei pazienti non vaccinati, infatti, si aggravano più di frequente. Mentre chi arriva al pronto soccorso protetto dalla dose booster è dimesso e curato a domicilio nel 70% dei casi».
«Sì, quando ho appreso della positività di un collega. Siamo una famiglia ed è sempre doloroso affrontare la malattia di una persona cara. Soprattutto di una patologia che, in quel periodo, era ancora un’incognita: vedevamo troppi pazienti aggravarsi ed anche perdere la vita davanti ai nostri occhi».
«A livello personale la dimissione dei pazienti più gravi. Se, invece, penso al lavoro di squadra, è un’enorme soddisfazione essere annoverati tra i primi ospedali ad aver utilizzato i monoclonali e tra i pochi a farlo in modo assiduo con straordinari risultati. Grazie ai monoclonali abbiamo visto quadri clinici risolversi completamente nel giro di poche ore».
«Senza dubbio. Il Covid-19 è la malattia della solitudine e noi sanitari siamo gli unici a poter placare quella dei nostri pazienti. Non è un caso che la nostra azienda ospedaliera abbia formato un’equipe di 20 psicologi, la parte fondamentale dei nostri reparti. Come medici la prima risorsa che mettiamo in campo è la nostra presenza: siamo gli unici a poter toccare i pazienti e lo facciamo non soltanto durante un atto di cura, ma anche per accarezzarli e tranquillizzarli. Per acquietare questa profonda solitudine in cui il Covid può catapultare chiunque, da un momento all’altro, senza preavviso».
«Assolutamente no. Se nella nostra professione non ci fosse stata una componente umana così potente, ulteriormente amplificata dalla pandemia in corso, allora tra i medici e i sanitari sarebbe prevalsa la disperazione dell’impotenza. Quando non c’è più nulla da fare per salvare una vita, allora ci aggrappiamo a questa relazione umana per continuare ad esprimere la nostra vocazione alla cura».
«Sì. Ed è una situazione che non solo provoca molta rabbia, ma mette anche a dura prova i nostri sentimenti. Ricordo perfettamente una 40enne che ha rifiutato l’intubazione: l’anestesista ha tentato per due ore di farle cambiare idea, un tempo lunghissimo durante il quale avrebbe potuto prestare le sue cure a tanti altri pazienti. Inutile dire che quel rifiuto a quella donna è costato la vita. Ci siamo ritrovati anche con presidi no vax davanti al nostro reparto: chiedevano le dimissioni di un paziente dalla terapia intensiva. Ed anche in questo caso, avremmo preferito continuare ad occuparci dei nostri pazienti, piuttosto che placare gli animi della protesta».
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