«Le risorse in arrivo con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza comportano una serie di sfide che dobbiamo affrontare nell’ottica di una nuova, organizzata ed efficiente integrazione socio-sanitaria. Integrazione che non è poi così scontata»
La chiave di lettura del PNRR perché riesca davvero a essere uno strumento efficace per il nuovo modello di assistenza ai cittadini, è nel valore e la voglia di provare a cogliere come veramente riflettere e organizzare l’integrazione sociosanitaria. Ne abbiamo parlato tanto e forse dobbiamo uscire un po’ tutti dalla logica di continuare a dibattere solo di come costruire le Case della comunità e dove metterle e dove mettere le Cot e cosa devono fare. Va benissimo, lo abbiamo fatto per un anno, ma quello che ora vedo come professionista inserita nel sistema, è soprattutto la necessità strategica e prioritaria di discutere e trovare il modello culturale e organizzativo perché queste strutture possano vivere e camminare davvero. E possono farlo solo se c’è anche una condivisione di finalità e di scopi e di cultura comune. Su questo versante finora abbiamo ragionato poco in maniera interconnessa, in maniera integrata. Lo abbiamo fatto ognuno per la propria famiglia professionale, ognuno per i propri aspetti peculiari dell’attività che svolgiamo.
Credo sia arrivato il momento di provare a capire come non solo stiamo dentro la Casa della comunità, ma soprattutto come stiamo fuori da questa. E nello stare fuori dalla Casa di comunità, si tratta di provare a mettere insieme, coniugare, la missione 6 con la missione 5 del PNRR, perché se pensiamo alla Casa di comunità come un unico elemento sanitario, rischia di trasformarsi in uno dei tanti nodi di questa rete che poi alla fine continua a non essere rete. La vera sfida che abbiamo di fronte è provare a capire come il PNRR ci invita a riflettere del modello organizzativo di rete. Attualmente vedo una grande difficoltà culturale: nessuna famiglia professionale è stata formata per fare il vero lavoro di équipe multiprofessionale di interconnessione. Siamo tutti bravissimi nel nostro specifico, ma facciamo fatica a capire che esistono modelli di lavoro d’équipe che vanno oltre la gerarchia, che non è l’unico elemento che ci deve far lavorare insieme.
Henry Mintzberg, teorico del management, già dalla metà degli anni ‘80 diceva che i meccanismi di coordinamento vanno da quelli più semplici, che è appunto la gerarchia quando devo governare un gruppo di “esecutori”, a quelli più complessi, articolati, quando devo governare i professionisti, l’adattamento reciproco, la standardizzazione delle competenze, la standardizzazione delle modalità di lavoro. Abbiamo davanti una grande sfida, proviamo insieme a creare un laboratorio dove tutti proviamo a discutere di qual è la cultura che occorre ai professionisti, che deve essere inserita nei piani formativi per entrare in questi nuovi modelli organizzativi, altrimenti saremo sempre orientati a valutarli con l’approccio tipico che abbiamo sempre avuto. Non c’è solo bisogno di come stare dentro le Case di comunità, ma di come “stare fuori”.
Senza dialogo e multiprofessionalità la Casa della comunità rischia di diventare un “condominio” dove c’è un elenco di citofoni e secondo la necessità che ho penso di suonarne uno, ma quelli che abitano sullo stesso pianerottolo poco parlano fra di loro: i Mmg con gli infermieri di famiglia e comunità piuttosto che lo specialista con i Mmg, o l’assistente sociale con l’infermiere di famiglia e comunità e così via. È più complesso e strategico il “fuori”, perché la Casa di comunità è un nodo di quella rete che noi dobbiamo costruire mettendo insieme la missione 6 con la missione 5, avendo come substrato la missione 1, perché diventa importante la digitalizzazione del Paese e il supporto informatico e di tutti i sistemi digitali.
Se la Casa di comunità è un nodo di questa rete ricca di “nodi” – la vera ricchezza del nostro territorio sono gli studi dei medici di medicina generale, le farmacie, gli ambulatori specialistici, tutte le strutture assistenziali, socio assistenziali, residenziali e residenziali, tutta la rete del terzo settore e quella delle amministrazioni locali, compresi i servizi sociali comunali che erogano una serie di servizi, la rete del volontariato, associazioni di pazienti, di cittadini -, la vera sfida è capire noi professionisti come ci poniamo dentro questi modelli, cosa significa essere un nodo della rete e cosa significa lavorare su processi di lavoro orizzontali, non più verticali e non più gerarchici, cosa significa partire dal bisogno del paziente.
Su questo dobbiamo fare lo sforzo principale, perché se non cerchiamo di capire qual è il contributo che ogni famiglia professionale può dare dentro i vari modelli, rischiamo di restare chiusi ognuno nel proprio specifico disciplinare, che è fondamentale, ma deve esserlo perché è quello che ci mette nella condizione di confrontarci e lavorare insieme agli altri. La Casa di comunità è un nodo della rete: la ricchezza sono tutti gli altri nodi che noi già abbiamo, che abbiamo bisogno di connettere, perché oggi il tema è che il cittadino con un bisogno sociosanitario si connette da solo ai diversi servizi, o lui o il suo caregiver o i suoi familiari. Se una persona con un bisogno è stata vista da un “nodo” di questa rete, difficilmente gli altri “nodi” della rete poi dialogano tra loro.
Dobbiamo trovare la strategia su come dialogare e come lavorare insieme. L’informatizzazione e la digitalizzazione del Paese è un elemento fondamentale. Abbiamo una miriade di sistemi informativi che non sono interoperabili, che non parlano tra di loro: i medici di medicina generale hanno le loro cartelle, i pediatri hanno le loro cartelle, il fascicolo sanitario elettronico raccoglie gran parte dell’attività sanitaria, ma solo quella pubblica perché il privato accreditato non compare. I servizi socioassistenziali territoriali hanno le loro cartelle, i Comuni hanno le cartelle sociali e così via.
Quando una persona arriva in pronto soccorso l’equipe, salvo che si tratti di persona conosciuta per accessi frequenti, può essere un perfetto sconosciuto, a meno che i professionisti non abbiano la possibilità di accedere e di capire se, ad esempio, questa persona è in carico ai servizi territoriali, qual è la sua cartella specifica, quali sono i bisogni sociali e quindi capire subito, dal primo momento, le condizioni in cui vive il supporto che può avere e gestire già la dimissione e non farlo l’ultimo giorno. Al netto di tutti i problemi di privacy, di tutela, riservatezza dei dati, tutto questo è importante, perché i diversi attori di questi nodi della rete devono poter visionare la situazione della persona per un allineamento informativo su quella che è la storia del paziente, del cittadino.
Sono questi gli elementi essenziali se vogliamo provare a fare una lettura integrata delle missioni 1, 5 e 6, perché sono gli elementi strategici che ci possono consentire di far camminare il PNRR, uscendo dalla logica del dibattito di quest’ultimo anno, che è stata quella di dove operiamo e cosa facciamo, come costruiamo i luoghi, quali colori utilizziamo, ecc. È fondamentale anche questo, ma credo che il dibattito sia ormai esaurito. Adesso c’è da lavorare sulla cultura e farlo è sicuramente tra gli elementi più critici, perché la cultura di un professionista e la sua formazione non si fa in dodici ore o con corsi smart, ma è un lungo momento di apprendimento.
Occorre anche provare a ripensare i percorsi formativi delle singole professioni, per i quali dovrebbero necessariamente esserci anche tronchi comuni, perché se dobbiamo condividere modalità e strategie di intervento per la sanità di iniziativa e per il management e per la riconnessione anche di una componente sociale, è necessario cambiare l’ottica di alcuni momenti formativi. Anche il sistema sociale, non solo quello sanitario, ha problemi di organizzazione per silos e confini e quindi la riflessione può essere veramente estesa al sanitario come al sociosanitario e al sociale.
Si tratta tuttavia di una frammentazione che non parte dai professionisti, ma molto più a monte perché parte dai livelli istituzionali di riferimento diversi: ministero della Salute per una tipologia di finanziamento, ministero del Lavoro e delle politiche sociali per un’altra tipologia di finanziamento e quindi, a cascata, ha interlocutori istituzionali diversi, approcci e provviste economiche diverse.
Occorre lavorare a monte su cosa prevedere. Ad esempio, la bozza di Dpcm che la Presidenza del Consiglio dei ministri nei mesi di luglio-agosto ha inviato alla Conferenza Stato-Regioni per il Piano nazionale non autosufficienza, prevede un grande sviluppo dei Pua (punti unici di accesso), elemento straordinario e di integrazione dentro la Casa di comunità. Ma se iniziamo a pensare di avere un pua sanitario e un pua sociale separati, siamo già partiti male: il Pua è unico, dove c’è sia la componente sanitaria che la componente sociale, anche per comprendere le necessità e indirizzare la presa in carico verso bisogni più sociali, più sociosanitari o più sanitari.
In questo documento anche la rilevanza in termini di finanziamento e di dotazioni di personale non è insignificante. Occorre fare in modo però che non diventino un altro nodo di una rete che non parla con gli altri, altrimenti si tratta di una rete piena di buchi che non consente al cittadino di essere preso in carico e di vedere soddisfatti i suoi reali bisogni. I veri temi su cui lavorare sono sicuramente le interconnessioni, la necessità di avere sistemi interoperabili e una visione che garantisca l’interoperabilità dei diversi strumenti di raccolta dei bisogni dei cittadini.
È necessario quindi lavorare sulla cultura, sulla formazione dei professionisti e, perché no, magari iniziare anche a capire quali possono essere quegli elementi istituzionali di raccordo anche ai livelli alti, altrimenti è quasi “magico” pensare che alla fine della filiera i singoli professionisti possano essere capaci di lavorare insieme, in maniera interconnessa, dentro questo disegno.
La professione infermieristica intende collocarsi come attore importante in questo disegno, anche in base al ruolo previsto dal Patto della Salute 2019 -2021 e poi attualizzato e formalizzato con tutti i decreti legati alla fase di emergenza, dal decreto 34/2020 in avanti sull’infermiere di famiglia e comunità.
E proprio l’infermiere di famiglia e comunità, ad esempio, in questa logica di sanità proattiva, di sanità di prossimità, può essere quell’elemento pivot che in qualche modo prova a tenere insieme la rete e governa e crea i collegamenti tra questi nodi della rete in una logica più avanzata di case manager.
Barbara Mangiacavalli (Presidente Fnopi)
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato