Il presidente della Società italiana della medicina di emergenza-urgenza: «Da noi anche pazienti per tamponi o test sierologici e casi sospetti Covid che non trovano posto nei reparti dedicati. Ma in alcune aree d’Italia è stato dismesso il percorso differenziato, quindi in presenza di un solo positivo rischiamo di chiudere tutto il pronto soccorso»
Guardando da lontano uno dei tanti pronto soccorso italiani sembra quasi che la pandemia sia solo un ricordo. Ma è solo apparenza: ad ingannare è l’elevato numero di persone che, in fila, attende il proprio turno. «Per affluenza, infatti – racconta Salvatore Manca, presidente della Simeu, la Società italiana della medicina di emergenza-urgenza – siamo tornati ad una situazione simile a quella del pre-lockdown». Durante la fase 1 dell’emergenza Covid, infatti, gli accessi al pronto soccorso, nelle zone più a rischio, erano diminuiti fino al 50%.
È solo guardando le sale d’attesa delle zone rosse più da vicino che ci si rende conto che la pandemia è tutt’altro che finita: tutti indossano la mascherina, disinfettano le mani prima di accedere e sono ben attenti a mantenere le distanze gli uni dagli altri. «In alcuni ospedali – continua Manca – assistiamo addirittura ad un aumento degli accessi rispetto all’ “era pre-Covid”. Questo perché non sono poche le persone che, non riuscendo a trovare servizi adeguati a livello territoriale, si rivolgono al pronto soccorso per effettuare tamponi o test sierologici in presenza di sintomi minori tipici dell’influenza».
E queste persone non sempre sono dirottate altrove: «Purtroppo in alcune zone d’Italia – spiega Manca – gli ospedali non hanno mantenuto il percorso differenziato dedicato ai casi sospetti di Covid-19. Le strutture che, passata la fase critica, sono state costrette a dismetterli hanno ora difficoltà a riattivarli per quell’insufficienza di organico da sempre segnalata all’interno dei servizi di pronto soccorso, ancor prima che la pandemia esplodesse. Questa è una realtà che riguarda soprattutto il sud Italia e le isole. Il rischio più grande è che in presenza anche di un solo positivo tutto il pronto soccorso debba essere chiuso, privando di un fondamentale servizio come quello di emergenza-urgenza tutti cittadini di zona, spesso lontani da altri presidi ospedalieri».
E i nodi da sciogliere non finiscono qui. «Il numero di posti letto presenti nei reparti Covid – aggiunge il presidente Simeu – è del tutto inadeguato. Se da un lato sono attualmente diminuiti i pazienti che necessitano di un trattamento in terapia intensiva rispetto al lockdown, dall’altro sono aumentati coloro che hanno bisogno di essere ricoverati nei tradizionali reparti Covid che, in molti casi, sono già arrivati a saturazione».
Un’inadeguatezza organizzativa che ricade ancora una volta sulla gestione dei pronto soccorso: «Non è raro che i casi sospetti di Covid vengano dirottati nei reparti di Osservazione breve-intensiva (Obi) dei pronto soccorso e, in attesa che si liberi un posto letto nel reparto Covid vero e proprio, possono trascorre anche 3-5 giorni. Di conseguenza, una parte del personale del pronto soccorso deve dedicarsi a questi pazienti rendendo ancor più sofferente un organico già carente».
L’impiego di nuovo personale appare ancora una volta urgente, «non solo attraverso contratti ad hoc – dice Manca -, ma anche reclutando specializzandi del quarto e quinto anno in medicina di Urgenza e affini, come quella Interna. La mancanza di mobilità si ripercuote sui piccoli centri, dove sorgono ospedali di primo livello, garantendo invece un miglior funzionamento dei grandi nosocomi che godono della presenza dei poli universitari».
Ma almeno una buona notizia c’è. L’aumento di accessi ai pronto soccorso fa scongiurare che agli effetti della pandemia se ne aggiungano altri collaterali, come accaduto durante la scorsa primavera. «I malati cronici hanno ricominciato a rivolgersi ai pronto soccorso in caso di necessità – commenta il presidente Simeu – evitando che la paura di essere contagiati possa peggiorare la loro condizione di salute in modo irreversibile».
Probabilmente, però, siamo ancora una volta di fronte ad una scorciatoia: «L’offerta dei servizi sanitari territoriale è carente in diverse zone d’Italia, non adeguata alle esigenze dei malati cronici. Le liste di attesa troppo lunghe, in mancanza di alternativa, costringono i pazienti a rivolgersi al pronto soccorso dove – conclude Manca – è possibile ottenere una risposta immediata 24 ore su 24».
Iscriviti alla newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato