Lavoro e Professioni 8 Agosto 2019 09:52

LA STORIA | «Ho perso la vista a venti anni e ho deciso di diventare psicologa. Ora la mia forza è al servizio degli altri»

Katia Caravello: «Essere una psicologa con disabilità è un’arma a doppio taglio. È un valore aggiunto che ti consente di comprendere meglio l’altro, il suo vissuto e le sue sofferenze. Ma la disabilità altrui può riattivare nel terapeuta ferite ancora aperte»

di Isabella Faggiano
LA STORIA | «Ho perso la vista a venti anni e ho deciso di diventare psicologa. Ora la mia forza è al servizio degli altri»

«Ansia e depressione sono due delle patologie più diffuse tra le persone con disabilità». Lo sa bene Katia Caravello, psicologa e psicoterapeuta, che da quando aveva vent’anni ha dovuto imparare a convivere con il buio. «Ero al primo anno di Giurisprudenza –  racconta – e, nel giro di pochi mesi, alcuni disturbi alla vista si sono trasformati in luci ed ombre».

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In quel momento Katia ha deciso di abbandonare tutto, università compresa. Ma dopo un periodo di pausa, è tornata a studiare e si è laureata in Psicologia, diventando, poi, anche membro della direzione nazionale dell’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti.

E la scelta di questa facoltà non è stata casuale: «Ho capito che dovevo mettere la mia forza al servizio degli altri – dice – aiutandoli ad affrontare il mio stesso percorso. Spesso – continua la psicoterapeuta – chi ha una disabilità non si sente all’altezza di affrontare i problemi quotidiani, ha difficoltà di autonomia, di relazione. Può avere paura di fare qualunque cosa, di incorrere in un pericolo improvviso, di non essere accettato per ciò che è, ma di essere visto solo per la propria disabilità».

«Per questo – continua Katia Caravello -, uno psicologo accanto ad una persona con disabilità ha il compito di aiutarla ad accettare la propria condizione, che si tratti di una disabilità congenita o, come nel mio caso, acquisita. È necessario che si lavori sul senso di autostima e di auto-efficacia, due aspetti della vita dai quali dipende molto il benessere individuale di un disabile».

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Anche il contesto in cui vive il paziente può influire negativamente sulla sua condizione, famiglia compresa: «I genitori o più in generale le persone care – dice Caravello – possono intralciare l’autonomia. Per questo lavorare con la famiglia è fondamentale: un atteggiamento iperprotettivo può limitare molto l’agire della persona e spesso anche il suo potere decisionale e la sua autodeterminazione».

Qualità che Katia Caravello non ha mai smesso di mostrare, andando avanti per la sua strada che l’ha condotta ad essere una psicoterapeuta attiva nel suo lavoro ed anche nel sociale. Una scelta che, con il tempo, si è rilevata un’arma a doppio taglio: «Essere una psicologa con disabilità può avere un valore aggiunto, ma nello stesso tempo – racconta – far emergere anche delle criticità. È un valore aggiunto nella misura in cui ti consente di comprendere meglio il vissuto dell’altra persona. Lo psicologo con disabilità può essere un buon esempio per il suo cliente, portando una testimonianza positiva di chi ha affrontato con successo questo percorso di accettazione. Però è anche un lavoro rischioso, soprattutto quando ci si trova di fronte ad una persona con la nostra stessa disabilità: è possibile che qualcosa della sua storia o della sua condizione risuoni in noi, riattivando qualche ferita ancora aperta»

Ma dopo dieci anni di esperienza sul campo, Katia Caravello ha imparato a gestire anche questa eventualità: «Bisogna stare molto attenti, ascoltando se stessi per comprendere quali sono i propri vissuti, distinguendoli da quelli dell’altra persona. Bisogna essere molto cauti anche quando si utilizzano quelli che lo psicoterapeuta americano Carl Rogers chiama “atti di trasparenza”, cioè il racconto di un pezzo della propria vita personale per l’altro. È necessario chiedersi se è davvero funzionale per il cliente, altrimenti gli si ruberebbe solo spazio e, soprattutto – conclude – se la cosa di cui si sta parlando è per il terapeuta una faccenda elaborata e chiusa, non più una ferita aperta».

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