Lavoro 15 Giugno 2022 09:46

Rischio cardiovascolare, anche in pandemia resta il killer più pericoloso

Indolfi (Sic) sul rischio cardiovascolare: «Grave gap nella formazione specialistica dei cardiologi, impatto su nuove generazioni»

Rischio cardiovascolare, anche in pandemia resta il killer più pericoloso

Due anni fagocitati dal Covid-19, dai dati sui ricoveri, sulla sintomatologia, sulla mortalità.

Rischio cardiovascolare, le conseguenze della pandemia

Due anni in cui tuttavia il più grande killer tra le patologie non trasmissibili, l’infarto del miocardio (e in generale la disfunzione cardiovascolare), non si è messo in standby. Anzi, complice la minore attenzione riservata alle patologie extraCovid-19, sia per quanto riguarda gli acuti sia nella gestione delle cronicità, queste hanno mietuto più vittime e fatto più danni rispetto al dato (incoraggiante) degli ultimi dieci anni.

E allora, come riprendere in mano, ad emergenza finita, la gestione del paziente cardiovascolare? Non solo nella tempestività di gestione dell’acuto, ma anche nella presa in carico sul territorio del paziente cronico e del paziente a rischio, implementando la prevenzione primaria e secondaria oltre che la riabilitazione. Anche qui, una mano salvifica potrebbe arrivare dal PNRR, per mettere in proficua sinergia ospedale e territorio ma anche per eleggere il domicilio come luogo primario di cura. Sarà quest’ultima infatti la chiave di volta per una Cardiologia più efficace.

Questi i temi all’ordine del giorno durante il webinar organizzato dall’Associazione Dossetti – I Valori e intitolato “Prevenzione cardiovascolare secondaria nello scenario post pandemico: come recuperare il tempo perduto, vincere l’inerzia terapeutica e migliorare gli esiti clinici”.

La Cenerentola delle patologie non trasmissibili

«La cardiologia non ha identità forte come altre branche delle patologie non trasmissibili – esordisce Francesco Fedele, Responsabile del Dipartimento Cardiovascolare dell’Associazione – nonostante continui a rappresentare la prima causa di morte nel nostro Paese. È un po’ una Cenerentola, perché viene messa nel grande calderone delle patologie croniche. Bisogna sicuramente superare molte inerzie burocratiche e aumentare l’accessibilità a certi farmaci e procedure regolatorie».

Pazienti farmacologicamente sotto-trattati

«La prospettiva dei pazienti cardiologici in pandemia è cambiata – afferma Furio Colivicchi, presidente dell’ANMCO (Cardiologi Ospedalieri) – sia per responsabilità loro sia per un calo effettivo dell’accessibilità ospedaliera. Tirando le somme con il 40% di accessi in meno in PS per problemi cardiovascolari e con meno ricoveri soprattutto per infarto miocardico è risalita la percentuale di decessi per infarto. Altro dato drammatico riguarda il crollo del consumo di farmaci, con un gran numero di pazienti sottotrattati rispetto agli anni precedenti in cui comunque i dati non erano ottimali».

Impatto sulla formazione specialistica

Uno dei gravi effetti collaterali della pandemia di cui non abbastanza si parla è l’impatto sui percorsi di formazione specialistica, come sottolineato da Ciro Indolfi, presidente della Società Italiana Cardiologia (SIC): «L’attività formativa e didattica in Cardiologia ha subito un brusco rallentamento durante la pandemia, e questo avrà un grave impatto nel tempo perché ad oggi quelle attività non sono state recuperate. Questo sarà un problema per la nuova generazione di cardiologi».

Recuperare cardiologia di prossimità senza rinunciare alla specialità

«Andiamo in direzione di una gestione territoriale del settore- sintetizza l’on. Fabiola Bologna – che valorizzi ancora lo specialista, così da gestire il paziente in maniera rapida in emergenza ed il paziente cronico nelle case di comunità. Dobbiamo creare una rete dall’ospedale al territorio per mettere in contatto lo specialista sia ospedaliero che territoriale con il medico di medicina generale, e per seguire anche al domicilio il paziente grazie alla telemedicina. In sostanza – conclude – puntiamo a una sanità di prossimità che non rinunci alla specializzazione o alla iperspecializzazione, che in molti casi è necessaria».

 

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