Attesa a giorni la valutazione dell’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria di Rai, Mediaset e degli altri editori. Tra richieste di ritiro dello spot da tutte le emittenti e le scuse da parte della Rai, la polemica sullo spot con Enrica Bonaccorti che sollecita azioni legali contro la malasanità non è ancora chiusa. E il 16 gennaio il presidente della FNOMCeO Filippo Anelli incontrerà il Consiglio nazionale forense
È stato un ciclone forse inatteso, quello che ha spazzato via dalle reti Rai e Mediaset lo spot di ‘Obiettivo risarcimento’, con cui Enrica Bonaccorti invita pazienti e cittadini che ritengono di aver subito un errore in ospedale a «farsi sentire» per ottenere «un giusto risarcimento», cui «tutti hanno diritto». Nel mezzo delle festività natalizie, si sono immediatamente mossi medici con petizioni on line, esponenti di tutto l’arco parlamentare, il ministro Giulia Grillo, realtà che tutelano da sempre i camici bianchi, sindacati e rappresentanti delle professioni sanitarie, che hanno portato alla parziale interruzione delle trasmissioni dello spot, ancora in onda in radio e su altre emittenti televisive.
Nonostante siano passati diversi giorni, gli strascichi lasciati dalla bufera sono ancora ben visibili. Il 16 gennaio il presidente della FNOMCeO Filippo Anelli incontrerà il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, per parlare di quella che, in una lettera, ha definito «un’iniziativa inaccettabile» che promuove «conflittualità giudiziaria tra medici e pazienti».
Intanto lo spot, come annunciato dal ministro della Salute, è stato segnalato dalla Rai all’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria che, secondo quanto riferito a Sanità Informazione, ha preso in carico il caso ed ha aperto la procedura lo scorso 3 gennaio. Sta quindi valutando se la pubblicità sia conforme o meno al Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, verificando l’onestà, la lealtà e la correttezza del messaggio, che non deve «denigrare le attività, le imprese o i prodotti altrui».
Più volte l’Istituto è stato interpellato per la valutazione di spot e messaggi dal contenuto simile. L’ultima decisione aveva giudicato un manifesto di Secure Refund con il messaggio ‘Malasanità, denunciando la combatti. Fatti Risarcire!’ non in contrasto con il Codice. Il manifesto mostrava una giovane donna evidentemente in difficoltà, con il volto coperto da una mascherina e sporco, come le mani e le braccia, di nero. Sullo sfondo, un quotidiano dal titolo “Medici sotto accusa”.
Secondo il Comitato di controllo che ha segnalato l’episodio, «l’intera rappresentazione mirerebbe a ottenere un forte impatto emotivo sul pubblico, esaltandone le paure e le preoccupazioni, nonché il desiderio di rivalsa in chi si ritiene vittima di ingiustizie».
Il Giurì, al contrario, nella sua pronuncia ha ritenuto che «la percezione contestuale di immagine e testo non sia tale da individuare il messaggio come connesso a qualunque tipo di intervento medico-assistenziale, riferendosi unicamente ai casi nei quali sia configurata una responsabilità medica, casi che nel linguaggio comune e dei media vengono definiti di “malasanità”. La scelta di un’immagine certamente incisiva e rischiosa data la delicatezza del tema – si legge nella pronuncia – non è stata ritenuta dal Giurì tale da superare la soglia di accettabilità».
Non è possibile sapere se tali criteri saranno seguiti anche per lo spot di Obiettivo Risarcimento. Bisognerà attendere la pronuncia, attesa per le prossime settimane. Intanto, da più parti giunge ancora la richiesta del ritiro dello spot da tutte le emittenti, insieme alle scuse da parte della Rai: «È assurdo che un servizio pubblico, solo per incassare qualche decina di migliaia di euro, attacchi un altro servizio pubblico, quello sanitario – ha scritto Massimo Tortorella, presidente del Gruppo Consulcesi -. L’Italia sta tornando a Caino contro Abele. Dobbiamo salvaguardare chi, oggi, non ha la serenità di curare secondo coscienza per paura di essere messo alla gogna. E non stupiamoci, poi, se i medici migliori se ne vanno all’estero o se i familiari dei pazienti aggrediscono gli operatori sanitari intenti a fare solo il loro dovere, sottopagati e spesso costretti a turni di lavoro massacranti, che attendono da anni i rimborsi per aver lavorato in corsia, dopo la laurea, gratuitamente. Vogliamo le scuse della Rai».
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Anche i medici sono intervenuti, singolarmente e in massa, sulla vicenda. Tra questi, il professor Cesare Faldini, direttore della Clinica ortopedica 1 dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, ha scritto un post su Facebook divenuto in pochi giorni, come si dice in questi casi, virale: «Entrare in una sala operatoria è il mio lavoro, e me lo sono scelto. Mi sono anche scelto il tipo di chirurgia: le grandi deformità ortopediche. Operare la grande complessità è dare una risposta a chi ha girato 10 ospedali senza avere una soluzione. A chi sta perdendo la speranza perché gli è stato detto che non si può fare nulla. Ma nessuno potrà mai denunciarmi se dico “non si può fare”. Sento molti colleghi dire “alla prima denuncia smetto”, e purtroppo ho sentito anche qualcuno “ho già una denuncia sulle spalle, casi a rischio non ne opero più”. L’insuccesso in chirurgia fa parte del gioco: nessun intervento (nemmeno il più semplice) garantisce buoni risultati a tutti, figuriamoci le procedure complesse. Ecco perché una pubblicità che promuove azioni legali contro i medici danneggia i pazienti. Crea un grave malinteso, come se ogni risultato insoddisfacente dovuto ad una complicanza fosse la conseguenza di un errore medico. Ma complicanza ed errore medico sono due evenienze ben diverse. Promuovere azioni legali contro gli insuccessi della chirurgia non farà altro che aumentare la paura e l’astensionismo da parte dei medici, e i pazienti ci rimetteranno perché renderebbe insostenibile la scelta, mai facile, tra astenersi per non prendere una denuncia oppure operare fregandosene del rischio».