«L’Italia è piena di buone pratiche che nessuno mette a sistema», spiega il fellow del centro Nexa dell’Università di Torino: «Serve cultura digitale»
Quale è lo stato della telemedicina in Italia? E quali sono i problemi che si presentano agli operatori sanitari, ospedalieri, infermieri e medici quando si tratta di applicare le nuove tecnologie in sanità? Si è fatto il punto su questo e sugli altri fronti connessi ai temi della medicina e del digitale nell’appuntamento promosso dall’European Law Students Association incentrato su “Sanità digitale e Gdpr”: un momento di approfondimento dunque sui problemi della privacy, della data governance e della tecnologia in sanità. Fra i molti relatori l’avvocato Mauro Alovisio, presidente del centro Studi di Informatica Giuridica di Ivrea Torino, fellow del centro Nexa dell’Università di Torino e già professore a contratto presso l’Università Statale di Milano. Sanità Informazione l’ha raggiunto per un’intervista telefonica in cui, precisa il legale, «rispondo volentieri a titolo personale e indipendente dagli enti con cui collaboro».
Professor Alovisio, quale è la principale problematica nell’applicazione degli strumenti e delle tecnologie di telemedicina?
«Innanzitutto, che non si sa definire lo strumento e il suo contorno. Per telemedicina intendiamo una modalità di erogazione di servizi di assistenza sanitaria, tramite il ricorso a tecnologie innovative, in situazioni in cui il professionista della salute e il paziente non si trovano nella stessa località. Le principali aree applicative sono:
Le sopra citate modalità operative comportano la trasmissione sicura di informazioni e dati di carattere medico nella forma di testi, suoni, immagini o altre forme necessarie per la prevenzione, la diagnosi, il trattamento e il successivo controllo dei pazienti. La mancanza di un quadro unificato che tenga insieme queste definizioni e le trasformi in strumenti pratici è stata segnalata in un recente intervento del professor Sergio Pillon, medico, ricercatore e forse uno dei più risalenti studiosi di telemedicina in Italia».
Cosa intende?
«Che si procede a macchia di leopardo. Ci sono molte realtà che promuovono progetti interessanti, a Latina ad esempio o in Veneto, ma sono progetti e iniziative dal basso affidate a singoli esponenti particolarmente lungimiranti. Lo dice uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità in una rilevazione che prende in considerazione il periodo 2014 /2017: alla telemedicina italiana manca la visione sia dello sviluppo nel tempo sia del coordinamento territoriale. L’epidemia da Covid ci insegna quanto possono essere importanti gli strumenti remoti: si possono assistere i pazienti senza mettere a rischio la vita del personale sanitario, arrivando fra l’altro a un significativo contenimento della spesa. Credo sia necessario superare la visione ottocentesca dei reparti sanitari, il feticcio dell’ospedale e pensare a un cambiamento organizzativo e culturale. Questo cambiamento fra l’altro sta già avvenendo: il Veneto durante i giorni duri della fase uno dell’epidemia ha inserito le prestazioni in telemedicina fra quelle rimborsate dal SSR con la semplice dicitura “eseguibile in remoto” sulla ricetta rossa. Lombardia, Toscana e altre regioni hanno poi semplicemente importato e copiato la stessa delibera».
Molti professionisti della sanità lamentano che questi sistemi ad oggi sono complessi, farraginosi e poco sicuri.
«Fino a che “telemedicina” vorrà dire “lavorare su Whatsapp” avranno ragione loro. Servono poche regole, strumentazioni adeguate e molto sostegno ai professionisti della sanità. Bisogna insegnare le tecnologie digitali con lo stesso spazio che nella formazione dei medici è dedicato ai problemi della sicurezza sul lavoro, che infatti loro studiano. L’approccio di telemedicina deve essere poi inserito necessariamente nel paniere che va a definire i Livelli Essenziali di Assistenza. Il diritto, anche della privacy, deve essere fatto vivere dentro le strutture sanitarie: il GDPR non è la legge dei divieti, indica solo un percorso che deve essere poi correttamente attuato. Un esempio per capirci: se durante una televisita si perde la connessione e il paziente capisce che la dose prescritta è un grammo invece che cento grammi, il dato non è pervenuto integro. Servono allora protocolli rigorosi che generano dati affidabili e di qualità, anche perché ne va della credibilità della struttura sanitaria. Utile in questo senso il Rapporto dell’Istituto Superiore della sanità ISS COVID del 13/04/2020 “Indicazioni ad interim per servizi assistenziali di telemedicina durante l’emergenza sanitaria COVID-19″».
Se lei fosse il direttore amministrativo di una struttura sanitaria come affronterebbe la sfida della digitalizzazione del proprio ospedale?
«Bisogna avere la visione e bisogna curare la gestione. Va creata una sorta di “unità di crisi” mista sanitario-amministrativa, questo gruppo di lavoro deve dare obiettivi congrui a tutti gli uffici e tutti i settori nell’ambito della digitalizzazione, creerei poi un’equipe formazione. Assumerei poi borsisti che curino il follow up dei medici dopo la formazione: Ha avuto successo? Ci sono problemi? Cosa possiamo migliorare? Utile anche creare un censimento delle iniziative digitali all’interno della struttura e anche in strutture limitrofe così da importare buone pratiche; creerei poi dei documenti base, ad esempio un Data Protection Impact Assessment per ogni reparto, per valutare se gli strumenti di telemedicina vengono utilizzati nel modo corretto e più rispettoso della privacy del paziente; e se, inoltre, al paziente vengono comunicati correttamente come sono trattati i dati e che diritti sono a disposizione: lo stesso livello di trasparenza deve essere assicurato verso medici e verso infermieri. Una volta che si avranno a disposizione questi documenti standard possono essere personalizzati a seconda del bisogno».
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