Il protocollo è stato siglato ma le vaccinazioni in azienda non hanno una data di inizio. Con la dottoressa Colecchia, medico del lavoro e co-fondatrice di AMOLP, parliamo delle criticità: dal tipo di vaccino ai costi per il datore di lavoro
Il Commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo ne sembra convinto: maggio sarà il mese in cui le vaccinazioni finalmente subiranno un’accelerazione. A farlo dovrebbe contribuire anche la procedura di vaccinazione in azienda, per la quale la scorsa settimana è stato siglato un protocollo con relative linee guida. All’interno una procedura che affida le somministrazioni al medico competente e le spese, salvo quelle per i vaccini e le siringhe, al datore di lavoro. Con la necessaria presenza di locali adatti, che in caso di mancata disponibilità possono essere richiesti all’Inail.
Sanità Informazione si è rivolta a Monica Colecchia, medico del lavoro e co-fondatrice di AMOLP, un’associazione di medici ed odontoiatri liberi professionisti, fondata per affrontare le difficoltà che quotidianamente incombono sulla categoria, come ad esempio il recente problema della vaccinazione. Una questione creatasi all’inizio della campagna per gli operatori sanitari, che non vedeva inclusi i libero professionisti nelle priorità. In molte Regioni, tra le prime Lazio e Lombardia, il problema non è ancora risolto e, nonostante il decreto che ora sancisce l’obbligo del vaccino per tutti i sanitari, tanti libero professionisti sono ancora in attesa.
«Ora dobbiamo vaccinare ma non siamo nemmeno tutti vaccinati» spiega Colecchia. Una vera contraddizione che però non parte dall’attività di vaccinazione, prosegue: «Noi medici competenti facciamo già vaccinazioni in azienda: contro il tetano, contro l’influenza. Certo, in numeri ridotti rispetto a quelli richiesti dalla situazione emergenziale. Non vogliamo sottrarci al nostro dovere perché siamo sempre presenti, ma ci sono delle criticità che non è possibile ignorare».
La prima riguarda la realizzazione del protocollo. Secondo Colecchia le linee guida sono molto aspecifiche e vaghe, prive di chiarezza sui requisiti specifici. Anche il supporto stilato da Inail, uscito più di recente, che aggiunge qualche dettaglio in più non entra nel vivo. «Non tutte le aziende hanno un’infermeria o dei locali idonei – chiarisce -, forse abbiamo dimenticato che in Italia l’80% delle aziende è fatto di piccole e medie imprese. Le più grandi potranno forse organizzarsi ma le altre devono arrancare e stanno cercando di capire cosa fare con noi. Mentre noi stiamo cercando di fare un protocollo oltre quello che ci è stato dato, che manca di troppi dettagli».
Nel punti 13 e 14 del protocollo è scritto che le aziende che non dispongono di locali «potranno avvalersi di quelli dell’Inail che adempirà a quanto necessario per le somministrazioni». Una soluzione che però è deficitaria secondo Colecchia: «Come facciamo a far muovere durante l’orario di lavoro centinaia di persone per recarsi nei locali dell’Inail?», si chiede.
Poi si configura il problema del tipo di vaccino da utilizzare. «Dovremmo usare un vaccino che ancora non possediamo – continua Colecchia -. In azienda il vaccino ad mRna non può essere usato, per via delle necessità di conservazione. Quello di AstraZeneca viene consigliato a popolazione di età superiore ai 60 anni quindi sarebbe utilizzabile solo su una piccola parte dei dipendenti. Siamo in attesa di Johnson&Johnson, l’unico con una sola iniezione che sarebbe la più comoda per i lavoratori».
Aderire alla campagna vaccinale in azienda significa, racconta Colecchia, anche tanti costi per il datore di lavoro. «Parlando con loro ho capito che servirebbero due o tre figure professionali sanitarie per poter effettuare la vaccinazione in azienda. Io stessa che sono in azienda per fare le vaccinazioni devo essere pagata, non posso andare gratuitamente. Non è come il medico di base o il farmacista per cui fare una vaccinazione è una cosa in più perché comunque hanno già un introito. Noi dovremmo sospendere la nostra attività rutinaria e fare le vaccinazioni. Quanto deve costare questo al datore di lavoro?» si chiede.
«Per non parlare – aggiunge – del business che ci sarà nel caso in cui vaccineremo e le società del servizio dovessero decidere i prezzi, compagnie che decidono con il datore di lavoro il prezzo da pagare e poi a noi danno una minima parte. Ovviamente noi possiamo anche rifiutare, però in una ditta di cui io mi occupo di salute e sicurezza non è piacevole dir di no alla vaccinazione. Si può dire solo di fronte alla constatazione che mancano i requisiti. E torna il problema della mancanza di chiarezza sui requisiti».
Ma come mai questa leggerezza nel redigere il protocollo? Chiediamo. «La verità è che le parti sociali decidono senza mai interpellare un medico del lavoro: vengono prese decisioni a nostro discapito e a nostro nome ma noi non siamo mai presenti» è la risposta della dottoressa Colecchia.
Per ora l’esperta, che lavora in Veneto, specifica che non c’è una data fissata per l’inizio delle operazioni. Perciò molti medici del lavoro si stanno già organizzando con i datori per portarsi avanti. «Io stessa ho stabilito un protocollo con le aziende e manderò ad ogni lavoratore un questionario anamnestico per riuscire a distinguere chi può essere vaccinato sul posto di lavoro e chi invece deve essere dirottato su altre strutture in quanto “fragile”. Il questionario arriva a me, ne faccio un computo sul numero dei vaccini e comunico al datore di lavoro di richiedere un tot di vaccini. E ci fermiamo qui al momento».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato