L’intervento di tre medici orobici arriva sulla più prestigiosa rivista scientifica mondiale: «Servivano tamponi per tutti i medici e lockdown immediato della Lombardia»
Una corrispondenza dal fronte: il New England Journal of Medicine torna a dare spazio ai medici italiani con un contributo firmato da due camici bianchi dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo (Stefano Fagiuoli e Ferdinando Luca Lorini) e da Giuseppe Remuzzi, in forza all’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, tutti parte dell’unità Coronavirus di Bergamo: «Due sono le principali lezioni che possono essere imparate dall’esperienza orobica», scrivono i sanitari nel ciclo Covid-19 Notes della principale rivista di medicina del mondo, in un articolo intitolato “Adattamenti e lezioni nella provincia di Bergamo”: «Primo, tutti i lavoratori di ospedali e case di cura e la comunità in generale avrebbero dovuto essere testati per il Covid-19 e tutti i positivi avrebbero dovuto essere isolati anche se asintomatici».
Secondo i dottori, infatti, sarebbe stato proprio l’indefesso impegno dei medici di base nel cercare i primi infetti ad averli esposti al contagio da Covid-19, «assieme alla mancanza di equipaggiamento protettivo destinato soprattutto ai presidi di famiglia»: sono stati 19 i medici in provincia di Bergamo a morire a causa del Coronavirus e «ognuno di loro era coinvolto nel trattamento di pazienti Covid-19, anche se nessuno di loro era in servizio presso il Papa Giovanni XXIII». La seconda lezione, «anche più importante», risiederebbe nel fatto che «un lockdown a livello regionale, immediato e generalizzato avrebbe dovuto essere implementato. Sarebbe stato un passo decisivo per ridurre i casi da Covid-19, prevenendo la saturazione degli ospedali e potenzialmente limitando il numero di morti nella provincia» .
Il contributo inizia ripercorrendo le tappe dell’esplosione dell’epidemia da Coronavirus dopo i primi, noti focolai di Alzano Lombardo e Nembro: i primi casi nell’ospedale di Alzano si sono registrati il 23 di febbraio, ma il lockdown della provincia non si è verificato prima dell’8 marzo. «Nel frattempo – spiegano i dottori – il virus aveva però contagiato migliaia di persone» e la capacità dei presidi sanitari bergamaschi veniva progressivamente saturata. Entro il 28 di marzo, i pazienti Covid-19 avevano occupato 498 dei 779 posti a disposizione del “PapaGio”, come viene affettuosamente chiamato il presidio sanitario bergamasco: «Di questi, 92 sono stati avviati alla terapia intensiva e 12 alla sezione dedicata della subintensiva». Entro poche settimane, «il 70% dei medici di ruolo è stato assegnato alle unità Covid-19», ricevendo un percorso di peer education che ha coinvolto «più di 1500 persone in una settimana». Intanto, il servizio di terapia intensiva veniva riconfigurato e potenziato, con un decollo di posti letto a disposizione che in 20 giorni è riuscito ad aggiungere oltre 100 postazioni operative.
La storia che raccontano i medici è fatta di «decisioni difficili» che i professionisti della sanità hanno dovuto prendere, principalmente riguardanti le assegnazioni dei ventilatori polmonari in base ad un punteggio di urgenza elaborato dai sanitari: «Anestesisti ed intensivisti hanno cancellato le chirurgie meno urgenti, inclusi tutti i trapianti» tranne un trapianto di polmone che appariva improcrastinabile. Dei primi 510 pazienti ammessi per Coronavirus, raccontano i tre medici bergamaschi, «il 30% ha perso la vita»; fortunatamente, «dopo mesi di lavoro da parte dei medici, la mortalità in ospedale è scesa da una media di 17/18 persone al giorno, con picchi di 19, fino alla cifra di due morti per giorno», simile alla media di 2,5 morti per giorno registrata prima della fase Coronavirus.
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