Sanità 29 Aprile 2020 15:00

Covid-19, gli svizzeri già nella fase 2. Un medico italiano dell’ospedale di Sion racconta come hanno fermato l’epidemia

«Lockdown parziale, tamponi solo a sintomatici, nessuna terapia pionieristica e ospedali dedicati con cinque livelli di criticità. Ma arrivati al terzo la curva ha iniziato a scendere»

di Federica Bosco

La Svizzera si lascia alle spalle la prima fase del coronavirus con 1680 decessi e riparte. E così dal 27 aprile nei Cantoni hanno riaperto studi medici, parrucchieri, centri estetici, negozi fai-da-te e di fiori. Un cambio di passo reso possibile dai numeri in discesa, come ci conferma Alexander Forneris, medico anestesista romano da alcuni anni nel Vallese, impegnato durante l’emergenza Covid nella terapia intensiva dell’ospedale di Sion.

«Grazie ad una medicina di buon senso, personalizzata, siamo riusciti a fermare l’epidemia – ci racconta collegato via Skype poco prima di entrare in terapia intensiva –. Con lo studio abbiamo cercato di capire le problematiche di ogni paziente, facendo tesoro dei successi e anche cercando di capire gli insuccessi, e quindi di fatto comprando del tempo, perché alla fine intubando un paziente è quanto abbiamo fatto. E attualmente si sentono sperimentazioni, teorie, ma di fatto un trattamento che realmente abbia una efficacia sull’infezione non si è ancora trovato. In sintesi il nostro successo si può racchiudere in una frase: nessuna terapia pionieristica, la fortuna di avere strutture e numeri necessari per poter fare una medicina di qualità».

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Questa quindi la ricetta che ha segnato  il successo della Svizzera, un Paese che è riuscito a contenere i numeri del contagio e passare alla fase due con largo anticipo: «Anche noi abbiamo subito una sorta di lockdown con restrizioni meno importanti, in quanto la Svizzera ha lasciato la possibilità alla gente di uscire di casa, mantenendo delle norme di buon senso, distanza e protezioni, ed evitando assembramenti con più di cinque persone – racconta Forneris -. Il picco di emergenza è arrivato due settimane in ritardo rispetto all’Italia, a fine marzo. In quei giorni mi è stato chiesto di andare a lavorare in terapia intensiva nell’ospedale di Sion, un grosso ospedale del Cantone Vallese. Ho dato la mia disponibilità e sono stato arruolato. Sin da subito mi sono occupato di molti pazienti, e il personale preso in eccesso era tutto impegnato a ritmi sostenuti. Nelle ultime settimane, invece, il numero di pazienti in terapia intensiva è calato sensibilmente, noi medici siamo addirittura troppi, il che fa pensare che il lockdown abbia portato dei frutti».

Pochi chilometri separano la Svizzera dall’Italia, eppure i contagi sono stati decisamente inferiori. Merito di una organizzazione efficiente negli ospedali, con livelli di criticità che in terra elvetica non sono mai arrivati al livello massimo. «Sul territorio – continua il dottor Forneris – le indicazioni sono state simili a quelle italiane, si è raccomandato alle persone di stare in casa, fare autoisolamenti, di chiamare il medico di famiglia e i numeri dedicati in caso di sintomi, prima di muoversi. I tamponi sono stati fatti solo a persone strettamente sintomatiche, dopodiché per quanto riguarda le strutture si è cercato di centralizzare i pazienti con Covid-19 nelle strutture dove ci sono terapie intensive adeguate. Nel mio ospedale sono stati previsti più gradi di criticità, ogni livello comportava l’attivazione di un’ulteriore sala con posti letto di terapia intensiva. Non siamo arrivati al livello massimo, ci siamo fermati al terzo. Come risorse avremmo potuto ancora accogliere altri pazienti, siamo stati fortunati perché all’ultimo avremmo dovuto fare dei triage di guerra. Cosa che purtroppo è accaduto in Italia».

 

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