ESCLUSIVA | Intervista allo psichiatra Thierry Javelot della clinica Le Gouz, che lavora con camici bianchi che combattono sempre più con stress e burnout: «Chi opera in sanità tende a non ammettere di essere malato e a non prendersi cura della propria salute. Finora abbiamo accolto soprattutto infermieri, ma i più esposti sono medici di famiglia e di Pronto soccorso»
È un’austera palazzina di intonaco giallo. Tre piani, due rampe di scale centrali per arrivare all’entrata, che è nascosta da una siepe e un alberello, evidentemente piantato di recente. La clinica Le Gouz ha infatti aperto i battenti lo scorso ottobre. È dedicata esclusivamente alla salute mentale dei professionisti del settore sanitario, che sempre più combattono con stress e burnout. Si trova a Louhans, nella regione francese della Borgogna-Franca Contea, ma non è la prima del suo genere: ce ne sono altre nel Regno Unito, in Canada, in Spagna, negli Stati Uniti. Abbiamo contattato la struttura e rivolto alcune domande allo psichiatra che vi lavora, il dottor Thierry Javelot.
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Dottore, perché avete deciso di aprire una clinica dedicata alla presa in carico psichiatrica dei professionisti della salute?
«Da una parte, per la grande frequenza e la particolare gravità delle problematiche riscontrate tra chi lavora in ambito sanitario. Le patologie psichiatriche sono infatti molto più frequenti tra i professionisti della salute rispetto al resto della popolazione, ma sono oggetto di un ritardo diagnostico e terapeutico importante: medici e operatori trascurano la propria salute. Inoltre, le problematiche che presentano hanno delle specificità: possono avere problemi ad ammettere di essere malati, perché “l’oblio di sé” è un aspetto comune e anzi identitario della loro attività professionale; possono poi sentirsi incompresi o colpevolizzati dai loro colleghi, dai loro pazienti, dai loro dirigenti. Per questo motivo esprimono spesso il bisogno di ritrovarsi tra di loro: hanno la sensazione di poter essere compresi soprattutto da loro pari. Al contempo, preferiscono essere curati in un luogo distante da dove esercitano abitualmente la professione, dove non rischiano di incrociare i loro pazienti o gli psichiatri ai quali si sono rivolti. Per i professionisti sanitari, questo è uno dei principali ostacoli all’accesso alle cure. Tuttavia, va osservato che molti dei nostri attuali pazienti provengono dalla regione in cui si trova la clinica, quindi i nostri pronostici sullo scoglio della vicinanza dal luogo di lavoro sembrano finora essere smentiti».
La clinica è stata inaugurata lo scorso ottobre. Qual è stata l’esperienza di questi primi mesi?
«L’avvio della nostra attività mi sembra soddisfacente, con un riscontro positivo da parte dei pazienti. Le difficoltà che dobbiamo affrontare erano prevedibili. C’è in particolare una grande ambivalenza da parte dei professionisti nei confronti della clinica: chiedono molte informazioni, ma poi decidono di non ricoverarsi, o rimandano il loro ricovero di diverse settimane o addirittura mesi. Finora, nonostante sia troppo presto per arrivare a conclusioni definitive, abbiamo avuto soprattutto infermieri. Le patologie più frequenti sono disturbi dell’umore e della personalità, a cui si associa nei tre quarti dei casi il consumo di sostanze che danno dipendenza».
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Quali sono gli specialisti maggiormente affetti dal burnout? Come mai?
«I medici che operano “in prima linea” sembrano particolarmente colpiti: soprattutto medici d’urgenza e medici di famiglia. E le ragioni sono diverse. I medici di Pronto soccorso devono costantemente dimostrare capacità cliniche, tecniche ed empatiche, e affrontare reazioni improvvise dei pazienti che a volte possono essere anche vendicative e aggressive. I medici di famiglia, invece, hanno un carico emotivo ed organizzativo importante, e si occupano di pazienti nei confronti dei quali si sentono spesso troppo coinvolti. Nell’arco della stessa mattinata devono passare dall’annuncio di una diagnosi difficile al convincere una mamma reticente della necessità dei vaccini; prescrivere un trattamento antipertensivo e poi mettere dei punti di sutura; chiedere un consulto al collega specialista e gestire una crisi d’asma acuta. Il tutto con una sala d’attesa strapiena. È evidente come una situazione del genere necessiti di destreggiarsi con competenze tecniche e relazionali molto varie e possa portare ad uno stress psichico non indifferente. Sono tanti i professionisti esausti, ma pochi quelli che quotidianamente devono confrontarsi con esigenze tanto contraddittorie. E nonostante tutto, il riconoscimento sociale ed economico è paradossalmente inferiore alle altre discipline».
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Quanto tempo è necessario per guarire?
«Dipende dalla patologia alla base del ricovero, ma spesso i professionisti della salute sono più impazienti del resto della popolazione: secondo il Consiglio nazionale dell’ordine dei medici, è raro che i camici bianchi si concedano più di tre settimane per curarsi, un periodo troppo breve in psichiatria. Per quanto riguarda il burnout, i trattamenti più validi come le terapie cognitivo-comportamentali o la meditazione in piena coscienza richiedono almeno otto settimane».
Quali sono le attività che proponete?
«La clinica ospita due sale per attività di gruppo, una palestra, una piscina per la balneoterapia e lettini per i massaggi. L’approccio corporeo è molto importante, perché gli operatori della sanità si trascurano molto anche sotto questo aspetto. Poi, anche se tutto dipende dalla patologia che porta al ricovero, cerchiamo di agire su quelle problematiche che si riscontrano in modo trasversale nei professionisti del settore sanitario: chi sceglie questa carriera, infatti, ha una personalità che tende ad avere difficoltà ad affermarsi in determinate circostanze o a rispondere negativamente alle richieste di pazienti e capi. Abbiamo quindi creato, secondo un approccio cognitivo-comportamentale, un gruppo di “affermazione di se stessi”. I professionisti sono poi pronti a dare consigli ai loro pazienti, ma hanno difficoltà ad applicarli su se stessi: ecco perché abbiamo dato vita al gruppo “vita in salute” dedicato al sonno, all’alimentazione e alla gestione del trattamento. Bisogna infine evidenziare che alcune attività “ricreative” risultano particolarmente terapeutiche per le loro condizioni: svolgere delle attività al di fuori dell’orario di lavoro, provando piacere e valorizzazione in modi diversi dal curare gli altri, è quindi una tappa importante del loro percorso».
È più difficile curare i professionisti sanitari rispetto agli altri pazienti?
«Credo sia un po’ più difficile, per le ragioni di cui parlavo prima. Alcuni professionisti hanno poi difficoltà ad abbandonare, anche se per un breve periodo, la loro posizione e la loro funzione per assumere quella del “semplice” paziente. Ma al contrario di quello che ci aspettavamo, questo traspare più nel rapporto che instaurano con gli altri pazienti della clinica e meno con i professionisti che vi lavorano. C’è il medico che dà un consiglio terapeutico a un non medico; lo psicologo che si offre di ascoltare un paziente particolarmente lamentoso; gli infermieri o gli operatori sanitari che si precipitano ad aiutare un “collega” che soffre di sciatica e che ci vengono ad allertare».
Pensa che i governi dovrebbero prestare maggiore attenzione alla salute mentale dei professionisti della sanità?
«Senza dubbio, perché la salute mentale dei professionisti della sanità pone un problema doppio: da una parte per loro stessi, dall’altra per i loro pazienti, tenuta in considerazione la potenziale pericolosità di cure dispensate in tali condizioni di stanchezza, o addirittura di problemi cognitivi e comportamentali. Alcuni trafiletti di cronaca non sono che la punta dell’iceberg che dovrebbe lanciare l’allarme. Visti il tabù che continua ad esistere su questa tematica e l’assenza di una raccolta sistematica dei dati, attualmente non abbiamo la possibilità di valutare l’ampiezza del fenomeno. Ma effettivamente è compito dei governi rendere possibile questa valutazione, e tirare le conclusioni necessarie in termini di misure da mettere in atto».
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