La denuncia dell’Universities Network for Children in Armed Conflict: «L’emergenza ha esasperato abusi e violenze minando ulteriormente accesso a istruzione e assistenza sanitaria»
Lavorare all’adozione di misure preventive contro il “virus” della violenza che subiscono i bambini in situazioni di conflitto, nel contesto ancor più aggravato di pandemia da Covid-19: è questo l’obiettivo della Conferenza internazionale ‘Preventive measures to counter violence against children in armed conflicts’ organizzata dall’Universities Network for Children in Armed Conflict in collaborazione con l’Università di Kufa (Iraq) che si terrà oggi in modalità virtuale. Il Network, nato nel novembre 2020, è composto da 40 università e centri di ricerca europei, africani, statunitensi, sudamericani e mediorientali, uniti con il comune obiettivo di promuovere azioni che implementino la tutela e la protezione dei minori che vivono in luoghi di conflitto, attraverso attività di ricerca, settimane accademiche, conferenze, tavole rotonde, seminari di studio e approfondimento.
Insieme alla dottoressa Giovanna Gnerre, membro del Comitato Organizzativo della Universities Network for Children in Armed Conflict, abbiamo analizzato in che modo l’attuale pandemia si ripercuote negativamente sulla già difficile situazione dei bambini che vivono in luoghi di conflitto.
«Sicuramente il Covid-19 rappresenta una minaccia aggiuntiva all’integrità di quei bambini che in molte parti del mondo sono già vittime di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani – afferma Gnerre -. Gli effetti potrebbero rendersi ancora più evidenti nel medio-lungo periodo con riferimento al generale sviluppo e protezione di questi bambini, all’accesso ai diritti, compreso l’accesso alla giustizia e agli aiuti umanitari, al cibo, alla sicurezza e all’istruzione. In quest’ultimo caso, infatti, alle violazioni del diritto umanitario si sommano le conseguenze della limitazione di percorsi scolastici motivata dal necessario contenimento della diffusione del Covid-19».
«Per oltre 1,5 miliardi di bambini in 182 paesi l’istruzione si è interrotta parzialmente o completamente durante la pandemia – spiega la dottoressa Gnerre -. Per i bambini che vivono in zone di conflitto armato il fatto di non andare a scuola e di non seguire un percorso di istruzione aumenta la probabilità di essere soggetti a violenze e abusi, di essere reclutati da gruppi armati, di essere vittime di tratta e di lavoro forzato, di violenza di genere e domestica per le bambine e le ragazze. L’accesso all’istruzione è un diritto fondamentale da garantire a tutti i bambini e ancora di più ai bambini coinvolti nei conflitti armati affinché essi stessi possano costruire, attraverso l’istruzione e la conoscenza, una consapevolezza di cosa voglia dire avere diritti e di come si possa contribuire alla costruzione della pace. Bisogna tenerne conto anche in questo momento in cui vengono adottate misure contenitive di diffusione del virus».
«Credo che l’impegno di tutti gli attori coinvolti nella tutela dei bambini vittime di conflitto armato – prosegue Gnerre – debba continuare ad essere quello di lavorare in modo sinergico per favorire tale obiettivo e porre in essere azioni mirate a proteggere questi bambini, affinché l’attuale emergenza sanitaria, una volta che sarà contenuta, non lasci spazio e margini ad un ulteriore aggravamento di situazioni già molto complesse. Come in Afghanistan – osserva – dove le restrizioni hanno interrotto l’accesso all’assistenza sanitaria – già particolarmente fragile anche a causa di continui attacchi ad ospedali e personale – all’istruzione e ai servizi sociali. In molti paesi tra cui Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan e Somalia sono aumentati i numeri del reclutamento forzato dei minori da parte di gruppi e forze armate a fini bellici e non solo: ragazze e ragazzi continuano ad essere costretti a entrare in gruppi armati come combattenti ma anche come assistenti di campo e per lo sfruttamento sessuale».
«Non va poi dimenticata – prosegue Gnerre – la condizione dei bambini che, spesso soli e senza figure genitoriali di riferimento, sono in fuga da conflitti come quello siriano. Si tratta di soggetti particolarmente vulnerabili in quanto sono contemporaneamente minori, vittime di conflitto, sfollati e rifugiati e purtroppo possono facilmente diventare vittime di abusi, povertà e sfruttamento. In Iraq e in Siria, la pandemia ha aggravato un contesto di protezione già sfavorevole per i bambini che si trovano nei campi per sfollati interni (sfollati interni sono coloro che sono fuggiti dalla propria dimora abituale ma che non hanno superato il confine nazionale) e in detenzione. Nel solo campo di Al-Hol in Siria – aggiunge – ci sono attualmente circa 40.000 bambini di oltre 60 nazionalità, che si trovano lì per sospetti legami familiari con gruppi armati e che vivono in condizioni difficilissime dal punto di vista sociale e igienico-sanitario».
«Vorrei ricordare infine un conflitto spesso dimenticato – continua la dottoressa Gnerre -. In Yemen il numero di vittime tra i bambini causate da una guerra che dura da sei anni e da una terribile crisi umanitaria ed economica, a cui si è aggiunta la pandemia, continua ad essere altissimo. Secondo l’UNICEF, più di 12 milioni di bambini (su una popolazione totale di circa 30 milioni di persone) hanno bisogno di assistenza umanitaria, più di 8.600 bambini sono stati uccisi o feriti dall’inizio del conflitto, e 3.500 sono stati i bambini forzatamente reclutati nel conflitto (questi ultimi sono dati forniti dalle Nazioni Unite; l’organizzazione non governativa Euro-Mediterranean Human Rights Monitor parla addirittura di oltre 10.000 bambini reclutati dal 2014 ad oggi). Inoltre – aggiunge – se prima dell’inizio della pandemia 2 milioni di bambini non andavano a scuola, ora con le chiusure delle scuole a questi se ne sono aggiunti altri 5 milioni. E il rischio è che in una condizione così difficile, che accomuna lo Yemen ad altri paesi, il ritorno a scuola, soprattutto dopo un lungo periodo, possa divenire ancora più problematico per le difficoltà legate al sistema già fragile e per i motivi evidenziati in precedenza».
«La pandemia e le misure adottate per contenerne la diffusione – osserva la dottoressa Gnerre – hanno inficiato le capacità di Organizzazioni internazionali e non governative di svolgere appieno e con effettività il proprio lavoro di tutela dei diritti e di prevenzione delle violazioni ai danni dei bambini in zone di conflitto. È comunque continuata una attività di monitoraggio e verifica relativa alle gravi violazioni allo scopo di mitigare gli effetti negativi della pandemia sui bambini. Oggi più che mai è fondamentale – conclude – non interrompere il lavoro di cooperazione a tutti i livelli (internazionale, regionale, locale) per contrastare le violazioni nei confronti dei minori, non solo pensando alla contingenza attuale ma anche con una prospettiva futura, affinché si riesca a dare continuità e vigore all’impegno di protezione di tutti quei bambini che sono vittime dirette e indirette di conflitti armati».
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