Eletta alla guida di MSF Italia da un mese, la dottoressa ricorda il suo impegno sul campo, elenca le aree più calde del mondo e pone dei paletti ben chiari: «Non dobbiamo diventare un movimento troppo grande, altrimenti diventa ingestibile»
«Quando stavo al liceo ho deciso che avrei fatto medicina per poi andare in Africa». Dopo 15 anni sul campo in ogni parte del mondo colpita da emergenze naturali o umanitarie, Claudia Lodesani, medico infettivologo, è stata eletta Presidente di Medici Senza Frontiere Italia. Ad un mese dal passaggio di testimone con il Presidente uscente Loris De Filippi, proprio colui che reclutò la dottoressa Lodesani, ricorda le sue missioni, talmente numerose che qualcuna le sfugge, nonostante siano esperienze che «ti rimangono dentro quando torni a casa».
Appena conclusa la specialità in infettivologia, è partita per un progetto HIV in Marocco; poi per il Burundi durante la guerra, «e lì mi sono trovata a fare di tutto, dal curare i bambini al contrastare la malaria». In seguito è andata nelle aree colpite dallo tsumani del 2004, e poi la prima missione in Sicilia con i migranti. Dopo, Haiti, Congo, Sud Sudan per due volte, Niger, Indonesia, Yemen, l’ebola per tre volte e la Repubblica Centrafricana, «ed ero là durante il colpo di stato del 2014». Una vita avventurosa e all’insegna dell’assistenza ai più sfortunati, quella della dottoressa Lodesani, che l’ha portata, appunto, alla guida di Medici Senza Frontiere Italia.
Dottoressa, quali sono le sue aspettative e quali gli obiettivi che vorrebbe raggiungere durante il suo mandato?
«Principalmente sono due i temi che dovremo affrontare: per prima cosa mi piacerebbe che Medici Senza Frontiere non fosse associato esclusivamente ai migranti, che costituiscono forse il 3% dei nostri progetti. Vorrei che si ricominciasse a parlare di MSF anche per tutto quello che fa in altri Paesi. E poi, in secondo luogo, dovremo discutere all’interno del movimento per capire cosa vogliamo diventare: già siamo molto grandi, dobbiamo ricentrare il movimento e non allargarlo ancora di più, altrimenti poi si farà fatica a gestirlo».
Oltre ai progetti sui migranti, quindi, quali sono le aree del mondo più calde, in cui la presenza di Medici Senza Frontiere è più importante?
«Sicuramente il Medio Oriente: Yemen, Siria e Palestina sono, soprattutto in queste ultime settimane, Paesi in cui si gioca il futuro degli equilibri geopolitici della regione e in cui dobbiamo essere presenti. Poi siamo in Africa, che è sempre una zona calda perché purtroppo la situazione non migliora. Ci sono alcuni Paesi più stabili, come il Camerun o la Tanzania, e Paesi come la Repubblica Centrafricana in cui sta ripartendo la violenza».
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Quali sono invece i conflitti dimenticati, che vengono ignorati dai media?
«Si parla forse poco del Pakistan e del Mali; di Sudan e Sud Sudan, che sono guerre un po’ dimenticate. In Congo adesso c’è una grossa crisi politica che avrà sicuramente delle conseguenze, ma adesso se ne parla perché hanno dichiarato di nuovo l’ebola».
Secondo lei c’è il rischio che l’ebola torni ad essere un’emergenza?
«Il rischio c’è sempre, ma adesso siamo sicuramente armati meglio rispetto al 2014 perché abbiamo i vaccini e dovremmo quindi riuscire a limitare le conseguenze. Il problema è che ora i casi di ebola sono in una zona in cui è molto complicato accedere, ci vogliono circa otto ore di macchina e quattro ore di moto, quindi è difficile arrivare ben equipaggiati, ma sicuramente abbiamo delle risposte più pronte».
So che vorrebbe ridimensionare il tema, ma può riassumerci le condizioni di salute dei migranti che arrivano oggi in Italia?
«Come diciamo dal 2004, il migrante che arriva è fondamentalmente sano. La percentuale di ricovero in ospedale dopo gli sbarchi è bassissima, è meno dell’1%, e riguarda prevalentemente donne incinta o traumi subiti durante il viaggio. Poi molti migranti hanno problemi psicologici legati alle condizioni delle carceri in Libia».
Ma ritiene che i medici italiani siano adeguatamente formati per affrontare queste situazioni?
«Sì e no. Il problema fondamentale è l’assenza dei mediatori culturali nelle Asl, che rende difficile la comunicazione tra medico e paziente. Immagini una donna incinta, che arriva con uno sbarco e viene portata in ospedale per un’ecografia, un qualcosa che non ha mai visto e che non possono spiegarle cos’è senza il mediatore culturale: è normale che si crei un problema di presa in carico, che non è legato al fatto che il medico non sia tecnicamente capace, ma alla barriera transculturale che esiste e che è difficile da passare. Poi c’è il discorso delle malattie infettive, su cui bisognerebbe prestare un po’ più di attenzione e ricordarsi che l’epidemiologia delle malattie in Africa non è sempre uguale alla nostra: se un migrante lamenta un mal di stomaco, il medico italiano penserà ad una gastrite e non, ad esempio, ad una giardia, e non perché non è bravo, ma semplicemente perché epidemiologicamente quello che vede qui è diverso».
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Senta ma cosa spinge un medico a diventare senza frontiere?
«Onestamente non lo so. Io ho deciso che sarei partita per l’Africa per portare il mio aiuto alle popolazioni quando ancora ero al liceo. È un qualcosa che mi sono sentita in dovere di fare quando ero veramente giovane, e non mi sono mai chiesta da dove provenisse questo desiderio. Chissà».