Frutto di due anni di lavoro e della collaborazione tra l’università di Londra e la celebre rivista scientifica, la Commissione ha condotto lo studio più completo sul legame tra migrazione e salute, invitando i governi a promuovere la salute nella mobilità globale
Sarà probabilmente una delle questioni su cui gli storici del futuro si soffermeranno più a lungo. E, stando così le cose, uno dei fenomeni per cui il ventunesimo secolo verrà ricordato, nel bene e nel male, sotto ogni possibile punto di vista e di analisi. Quelle dei migranti sono storie che ormai quotidianamente riempiono giornali, talk televisivi, social network e le bocche di tutti. Nel mondo un miliardo di persone, nel 2018, è emigrato. La maggior parte è rimasta nel suo Paese, mentre sono andati all’estero 258 milioni di persone. I rifugiati sono 22 milioni; coloro che sono stati costretti a spostarsi per guerre, disastri naturali e cambiamenti climatici 40 milioni. E al contrario di ciò che dicono i Paesi più ricchi, quello migratorio è un fenomeno che colpisce soprattutto i Paesi più poveri.
Avendo presente questi numeri, in Inghilterra ci si è domandato quali potessero essere le conseguenze delle migrazioni sulla salute. Dalla collaborazione tra lo University College London (UCL) e la rivista scientifica The Lancet, è quindi nata una Commissione su migrazione e salute, con l’obiettivo di presentare a governi, agenzie internazionali e professionisti evidenze volte a promuovere la salute nella mobilità globale. È il risultato di un progetto di due anni, condotto da 20 esperti mondiali provenienti da 13 Paesi. Include l’analisi di nuovi dati e ricerche originali, e rappresenta lo studio più completo sulle evidenze disponibili. Il report è stato presentato alla recente Conferenza intergovernativa delle Nazioni Unite sul Global Compact.
Uno dei primi documenti pubblicati affronta lo stereotipo del migrante che porta le malattie. «Si tratta di miti dilaganti e pericolosi per gli individui e la società – scrive la Commissione -. Sono notizie infondate che hanno permesso ai governi di molti Paesi di introdurre politiche ostili e restrittive, inclusi la detenzione di migranti al confine statunitense o il rifiuto di cure mediche da parte del servizio sanitario britannico».
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«In realtà – prosegue la Commissione – non c’è alcuna associazione sistematica tra migrazione e malattie infettive, e i dati ci dicono che il rischio di trasmissione dalla popolazione migrante a quella ospitante è basso. Gli esempi recenti di diffusione di patogeni resistenti, al contrario, sono riconducibili più ai viaggi, al turismo internazionale e al movimento del bestiame, che alle migrazioni».
La Commissione chiede quindi ai governi di migliorare l’accesso dei migranti ai servizi, rafforzandone il diritto alla salute e combattendo i principali fattori che influiscono sul loro benessere fisico e psicologico, inclusi razzismo e discriminazione. Inoltre, la Commissione evidenzia i rischi della paura dell’espulsione dal Paese che li ospita, che può portarli a «non rivolgersi agli ospedali o ai medici in caso di bisogno, mettendo a rischio la propria salute e la salute pubblica. Medici e operatori sanitari non devono sentirsi agenti dell’immigrazione, ma devono lavorare per assicurare salute a tutti».
«Il modo in cui il mondo affronterà le migrazioni – commenta infine il presidente della Commissione Ibrahim Abubakar – determinerà la salute pubblica e la coesione sociale dei prossimi decenni. La creazione di sistemi di salute che integrino anche gli immigrati porterà benefici a tutta la comunità, con migliori risultati e risvolti positivi per tutta la popolazione».