Teresa Leone, Responsabile Progetti Internazionali di Medu: «Stiamo facendo pressioni per poter entrare nel territorio palestinese e portare medici e farmaci». Ma Gaza al momento è blindata
La Striscia di Gaza è chiusa. Blindata. Le forze israeliane hanno tagliato l’elettricità che rende operative le strutture ospedaliere, le quali stanno collassando a causa della carenza degli approvvigionamenti, dei farmaci essenziali e delle cure specialistiche. Il mondo esterno, le associazioni benefiche e sanitarie internazionali non riescono ad entrare per dare un po’ di respiro al personale del luogo e ai loro pazienti. Se già di solito, in tempi meno tragici di questo, è difficile entrare o uscire, adesso è praticamente impossibile. «Stiamo tentando di organizzare una delegazione di medici da far entrare nella Striscia di Gaza. Stiamo provando ad avere il permesso per far passare personale palestinese per portare aiuti sotto forma di risorse umane e farmaci», spiega a Sanità Informazione Teresa Leone, Responsabile Progetti Internazionali di Medici per i diritti umani.
Medu, insieme ad altre associazioni (come Medici Senza Frontiere e la Croce Rossa Internazionale), collabora con organizzazioni locali. Il loro referente principale è Physicians for Human Rights, che a sua volta fa parte di un collettivo di associazioni palestinesi ed israeliane che si occupano di diritti umani e di sanità. Questa rete, oltre a portare aiuto materiale alla popolazione palestinese, vuole creare una massa critica che possa incidere sulle decisioni di apertura/chiusura dei varchi, anche solo per qualche ora, per motivi umanitari o per approvvigionamento di farmaci e cure mediche.
«Stiamo poi provando a spingere le autorità israeliane ad aprire il varco di Erez – spiega ancora la dottoressa Leone – per permettere l’uscita almeno dei pazienti più gravi. Al momento, però, la situazione è completamente fuori controllo, visto che la Striscia di Gaza è completamente chiusa e asserragliata. Lo era anche prima ma ogni tanto si riusciva ad ottenere qualche permesso per uscire». Perché anche per motivi umanitari o sanitari, specialmente in caso di pazienti gravi o che hanno bisogno di essere ricoverati presso strutture specialistiche sia a Gerusalemme Est che in Cisgiordania, per ottenere i permessi necessari si deve passare per una trafila molto lunga. «Ora però non c’è alcun coordinamento per fare uscire i pazienti, neanche quelli che versano in condizioni gravi».
Pochi giorni fa le forze israeliane hanno distrutto l’unico laboratorio Covid palestinese. Ma il Covid-19, in questo periodo, «non fa altro che aggravare ulteriormente una situazione di per sé già molto complicata – spiega ancora Leone –. La disparità nella distribuzione dei vaccini è stata enorme: la campagna è iniziata tardi e la popolazione palestinese ha ricevuto molte meno dosi rispetto a quella israeliana. È stato grazie al programma Covax se è stato possibile effettuare le vaccinazioni finora».
Altro grosso problema di Gaza riguarda i pazienti più gravi, come i malati oncologici che molto spesso non riescono ad ottenere i permessi necessari per andare a curarsi negli ospedali, soprattutto a Gerusalemme Est. «A volte ci riescono con notevole ritardo, e un ritardo nei cicli di radioterapia o chemioterapia aumenta di molto la possibilità che il paziente muoia. Questo è un altro aspetto del lavoro di denuncia e pressione sulle autorità israeliane per permettere l’evacuazione, per motivi umanitari, almeno di questo tipo di pazienti».
«Da anni portiamo avanti un progetto per portare assistenza sanitaria alla popolazione palestinese in zone che non vengono raggiunte dal servizio sanitario nazionale. La questione – continua Leone – è abbastanza complessa dal punto di vista del settore sanitario: secondo gli accordi di Oslo la gestione del servizio sanitario è affidata all’autorità nazionale palestinese ma, allo stesso tempo, la maggior parte dei settori pubblici della Palestina dipende dagli aiuti internazionali. Succede dunque che si debba tornare alle convenzioni internazionali secondo cui la forza occupante dovrebbe garantire la tutela della salute dell’occupato».
Tutto ciò porta ad un servizio sanitario frammentato e con poche risorse, ufficialmente pubblico ma inefficiente ed inefficace. E in più le cure e i farmaci costano molto. «Cerchiamo di supportare il sistema di cliniche mobili per portare assistenza sanitaria, sia medicina di base che specialistica, in giro per le strade e per assistere gratuitamente le persone più indigenti e vulnerabili. Donne e bambine in primis. In questi camper possono esserci pediatri, ginecologi e così via».
Ma anche girare con un camper per quelle terre martoriate per fornire assistenza sanitaria a chi ne ha più bisogno è tutt’altro che facile: «Per entrare a Gaza è necessario avere un permesso. Bisogna dunque coordinarsi con le autorità israeliane, e per far questo serve diverso tempo. Il lasciapassare, quando lo si ottiene, dura solo pochi giorni. Noi entravamo con una equipe composta di professionisti israeliani e palestinesi residenti in Israele». Non a Gaza, però, in cui gli israeliani non possono entrare. «L’ultima missione di questo tipo risale a marzo – conclude la Responsabile Progetti Internazionali di Medu –, quando abbiamo portato squadre di specialisti che hanno supportato il personale degli ospedali, attrezzature mediche e farmaci». Da allora, dopo il rinfocolarsi degli scontri, più nulla.
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