Un radiologo italiano a Vancouver racconta: «Bene la gestione dei contagi, ma ritardi nella distribuzione dei vaccini. Le seconde dosi non bastano»
Ristoranti aperti, ma niente ospiti a casa. Il Canada sceglie di adottare una politica differente rispetto all’Italia per combattere il Covid, cercando di tutelare anche l’economia. Una scelta che sembra dare alcuni risultati: il Canada, con una popolazione di 37,6 milioni di persone, registra poco più di 700 mila casi di Covid e quasi 18 mila morti. Ce ne parla Francesco Macrì, radiologo calabrese da due anni a Vancouver, dopo un trascorso in Francia e negli Stati Uniti al Massachusetts Hospital di Boston.
«Nella Columbia Britannica la gestione è buona e le persone sono molto disciplinate – spiega -. Le restrizioni negli ultimi mesi si sono allentate: si può uscire senza problemi, i ristoranti funzionano, ma alle 22 l’alcol non si può più servire, quindi in generale gran parte delle attività commerciali chiudono intorno alle 22.30 o 23. Si può stare al massimo in sei persone al tavolo, ma non si può invitare gente a casa. Questo perché mentre i ristoratori, per paura di dover chiudere e perdere il lavoro, sono molto organizzati nel rispetto delle regole disposte dall’assessore provinciale, il governo non si fida di ciò che può accadere tra le mura domestiche e quindi è stato stabilito il divieto all’ospitalità. Non solo, è stato istituito un numero dove i vicini possono fare segnalazioni, e qualcuno è stato anche multato. Ci sono persone che hanno pagato anche multe di 2000 dollari ovvero 1200 euro. In generale le istituzioni sono molto severe e devo dire che tutto funziona al meglio».
Se le province canadesi hanno trovato un giusto equilibrio per garantire la sopravvivenza delle attività commerciali e il rispetto delle regole anti-Covid, più difficile sembra essere la gestione della campagna vaccinale che, partita a metà dicembre, prima di molti altri Paesi, oggi denota ritardi e carenza di scorte.
« Il Canada, come la Gran Bretagna, è stato tra i primi Paesi ad avviare la campagna di vaccinazione tra gli operatori sanitari, ma non c’è ancora una grande copertura. Non è stata bene organizzata: prima sono stati vaccinati coloro che lavorano in terapia intensiva, poi i medici del pronto soccorso e chi lavora nei servizi di lunga degenza. Io lavoro al pronto soccorso e questo mi ha permesso di avere la prima dose, ma non si sa quando la seconda dose sarà disponibile. Ho sentito dire che le seconde dosi saranno utilizzate per allargare la copertura a più persone e questo genera incertezza, perché di fatto non si sa quanto durerà l’immunità. Se non si farà la seconda dose nei tempi prestabiliti, la copertura non sarà efficace come previsto dalle indicazioni della casa farmaceutica –evidenzia il radiologo italiano – ma meglio una dose che nessuna…».
A Toronto pochi posti in terapia intensiva
Per fronteggiare il virus, una copertura anche parziale è già un buon inizio, a cui occorre aggiungere il buonsenso dei canadesi, una bassa densità di popolazione e nessuna cultura dell’aperitivo. «Lo stesso non si può dire della provincia di Ontario – riprende Macrì –. Infatti a Toronto, nonostante le rigide temperature, c’è una cultura più europea, voglia di uscire, di divertirsi, ci sono molti latini e una grossa comunità di italiani. Là il virus si è diffuso di più. Non solo, se in Europa la medicina come la tecnologia sono all’avanguardia, in Canada in generale, e a Toronto in particolare, le terapie intensive sono poche e ormai piene. A breve si dovrà scegliere chi curare e questo è un limite della sanità canadese».
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