In occasione della Giornata nazionale sulla sicurezza delle cure, dedicata alla sicurezza degli operatori sanitari, presentata un’indagine mondiale: «Risposta alla pandemia lenta in Europa e Africa, più rapida nel sud-est asiatico e in Medio Oriente»
«Il Covid ha richiamato tutti all’importanza dell’igiene nelle strutture sanitarie: sanificazione, igiene delle mani, uso delle mascherine. Negli ultimi anni avevamo un po’ dimenticato, soprattutto in alcuni ospedali, le regole generali di igiene. Lo dimostra il fatto che siamo uno dei Paesi con i tassi più alti di infezioni correlate all’assistenza». Così a Sanità Informazione Riccardo Tartaglia, Presidente dell’Italian Network for Safety in Health Care e a lungo Direttore del Centro Gestione Rischio clinico della Regione Toscana.
Le parole di Tartaglia arrivano in occasione della seconda Giornata nazionale per la Sicurezza delle Cure che si svolge ogni 17 settembre e che quest’anno l’OMS dedica proprio agli operatori sanitari, perché non c’è sicurezza per il paziente se non c’è per gli operatori.
In occasione della giornata, Tartaglia ha presentato i dati preliminari di uno studio epidemiologico ISQua-INSH sulla gestione della pandemia a livello internazionale. E non sono mancate le sorprese.
La survey ha coinvolto un campione di 1400 esperti in qualità e sicurezza delle cure a livello mondiale che sulla base di un questionario hanno descritto quella che è la situazione in tutte le aree regionali dell’OMS.
«Ne è venuto fuori un quadro un po’ desolante, nel senso che sono stati tutti colti di sorpresa» sottolinea Tartaglia, che aggiunge: «Nonostante avessimo una legge sulla sicurezza delle cure molto valida, nessuno ha ritenuto di coinvolgere i clinical risk manager italiani sulle questioni relative alle infezioni e alle pandemie».
«I dati del Global Health Security Index elaborato dallo Johns Hopkins Center for Health Security, che definisce i livelli di sicurezza dei vari Paesi, davano l’Italia al 21esimo posto. Ma nella risposta alle epidemie non siamo nemmeno tra i primi 40» continua Tartaglia.
Il primo dato è quello sui tempi di percezione del rischio: il 50% dei rispondenti ha detto che la risposta è stata lenta. «I tempi di percezione del rischio sono stati molto diversi tra un’area e un’altra, però possiamo dire che il tempo di intervento è stato molto lento in Europa e in Africa. Un po’ più veloce in Medio Oriente e anche nel Sud est asiatico, probabilmente perchè toccate in passato da virus come il Sars e la Mers» spiega ancora Tartaglia
Molto significativo il dato sul piano pandemico: nell’80% dei casi esisteva un piano pandemico, ma solo nel 50% era aggiornato. Dunque i documenti sono rimasti nel cassetto.
Per quanto riguarda la sicurezza dei lavoratori esistevano delle linee guida precise su come indossare i dispositivi (il 90% dei rispondenti ha detto così) e in tutte le regioni OMS c’è stata una buona informazione su come indossare i Dpi. Ma solo il 30% degli operatori ha detto di aver svolto una simulazione di pandemia in passato.
A sorpresa, l’80% degli intervistati ha risposto che si sono sentiti abbastanza protetti durante la pandemia. Ma non è un dato così positivo come può sembrare. «Questa percentuale non va vista come ‘è andato tutto bene’. Anche un 20% di persone non protette è una percentuale altissima. Non è comunque una risposta soddisfacente» aggiunge Tartaglia. E la metà degli operatori ha dichiarato di avere avuto dei problemi nell’approvvigionamento dei Dpi.
In Europa quelli che non hanno avuto problemi con la disponibilità di mascherine risultano essere intorno al 50%. Inoltre gli operatori lamentano la mancanza di qualsiasi tipo di sostegno psicologico e la mancanza di un aiuto di fronte a uno stress fortissimo.
A questi si vanno ad aggiungere altre problematiche risultate dalla survey: «È emerso il problema della medicina di base in tutto il mondo, con il territorio che a parte qualche eccezione non ha funzionato -spiega Tartaglia -. Poi c’è stato il problema nei laboratori che si sono trovati all’improvviso con un carico di lavoro straordinario che non sono sempre è stato possibile gestire. E infine spesso è stato necessario, per carenza di spazi, sistemare pazienti Covid insieme a pazienti no Covid. In sostanza non abbiamo avuto capacità di anticipare quasi nulla, il rischio è stato sempre inseguito».
Resta dunque prioritario, anche in virtù dell’emergenza Covid, potenziare le regole di igiene all’interno delle strutture per salvaguardare il nostro personale: «Purtroppo – conclude Tartaglia – le regole di asepsi, a cominciare dall’igiene delle mani, non vengono più osservate come dovrebbero essere osservate. Il Covid ha richiamato tutti quanti all’importanza dell’igiene nelle strutture sanitarie: sanificazione, igiene delle mani, uso delle mascherine. Negli ultimi anni, e lo dico da Direttore del Centro gestione Rischio clinico, abbiamo un po’ dimenticato le regole generali di igiene. Questa scarsa attitudine all’igiene ha pesato notevolmente su questa pandemia. Molti medici hanno affrontato la pandemia, hanno gestito questi casi clinici in maniera anche un po’ troppo spavalda. Alcuni non erano protetti e quindi esposti, altri erano anche protetti evidentemente non a sufficienza. Non c’era totale consapevolezza del rischio».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato