In occasione della giornata internazionale della donna, Antoniano Onlus con il progetto SIMPLE dà voce a chi fugge da guerre e violenze e cerca rifugio in un’altra terra. Grazie agli psicologi dell’associazione Approdo, mette in campo strategie per costruire il futuro
La voce di Alma tradisce ancora paura per il ricordo di un viaggio che ha segnato la sua esistenza per sempre. Erano gli anni ’90 quando una ragazzina non ancora maggiorenne è fuggita dalla Serbia dilaniata dai combattimenti per raggiungere insieme ai suoi famigliari l’Italia. Un trauma che ancora oggi irrompe nei suoi sogni come il peggiore degli incubi e la porta a rivivere quei giorni.
«L’unica cosa bella del mio passato sono i miei figli – dice tutto d’un fiato la donna– sono arrivata in Italia quando avevo 17 anni e una bambina piccola, mentre ero incinta e ancora non lo sapevo del secondo bambino». Un viaggio difficile su un mezzo di fortuna e segnato da un nubifragio. «Eravamo circa cento persone prima al buio, poi stipati uno contro l’altro su una imbarcazione che faceva acqua ed infatti ad un certo punto ci hanno buttati a mare. Io cercavo mio marito, mia figlia e mia cognata. Non li vedevo, ma ad un tratto sono riuscita a scorgere mia cognata mentre stava tentando di rimanere a galla con molta fatica. A quel punto l’ho afferrata, e con tutta la forza che avevo in corpo, non so neppure come, sono riuscita a trascinarla a riva, mettendola in salvo. Poi sono arrivata a Bologna e lì ho incontrato gli operatori del Progetto SIMPLE che mi hanno ridato la speranza».
Una storia a lieto fine che nella giornata internazionale della Festa della Donna, vuole essere simbolo e speranza per tutte coloro che si trovano a fuggire da una guerra. «Ho rischiato di perdere il bambino che aspettavo, ma il desiderio di essere libera mi ha dato una forza incredibile e poi riuscire a raccontare a qualcuno il mio vissuto ha contribuito ad allontanare i demoni e ad immaginare un futuro ancora a colori. Oggi mia figlia è diplomata, ha la patente e per me è un grande orgoglio».
Una rinascita per la donna che, prima di arrivare in Italia, era stata vittima anche di violenza domestica. Ha rischiato di perdere il bambino che aspettava durante il viaggio, ma ha avuto la forza di superare gli ostacoli più duri e trovato un approdo sicuro. «Le recenti immagini della fuga dall’Ucraina a causa della guerra di donne e bambini, rendono sempre più attuale il tema del trauma migratorio a cui sono sottoposte migliaia di persone ogni anno – spiega Jasmeen Shehate, egiziana di origine e referente del progetto SIMPLE per Antoniano Onlus -. Il progetto ha permesso a donne provenienti da Siria, Afganistan, Oriente di trovare fiducia e speranza. Sarà così anche per le donne dell’Ucraina che oggi scappano dalla guerra».
Secondo le stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), i numeri sono infatti destinati ad aumentare e si ipotizza che nelle prossime settimane ci saranno oltre quattro milioni di rifugiati. In occasione della giornata internazionale della donna Antoniano Onlus di Bologna ha voluto raccontare, attraverso la voce di una di queste donne il trauma migratorio che subiscono e quali possono essere gli stratagemmi da introdurre per restituire loro la speranza.
«Il trauma migratorio viene considerato un dramma estremo che riguarda la perdita della quotidianità di donne costrette a lasciare il paese d’origine per una guerra oppure a causa di altri eventi traumatici – spiega la referente di Antoniano Onlus -. Si ritrovano così a dover ridefinire la propria identità e abbandonare i propri ruoli sociali, lasciarsi alle spalle una cultura conosciuta, per andare incontro ad una completamente nuova. Tutti questi sono elementi che causano stress, ansia del corpo e perdita di emotività nelle donne che incontriamo che tra l’altro sono costrette pure a farsi carico delle difficoltà di tutto il loro nucleo famigliare».
Sono donne dai 18 ai 50 anni con un vissuto alle spalle molto differente così come la reazione al dramma che stanno vivendo è difficile da far rientrare in una casistica. «Abbiamo sostanzialmente due possibili risposte da parte delle donne che subiscono un trauma migratorio: possono essere in ipereccitazione quando fuggono da una guerra, o al contrario in uno stato di apatia che prepara allo spegnimento del corpo se reduci da violenze. Questo impedisce alle donne di vivere una vita dignitosa e appagante nel paese che le ospita». Cercare di tracciare un profilo delle vittime o di creare una statistica per età e provenienza è estremamente difficile ci fa capire Jasmeen «È molto personale il comportamento al trauma, si riferisce alle esperienze vissute».
Offrire alle donne un supporto concreto attraverso un innovativo percorso basato sulla comunicazione illustrata è l’obiettivo del progetto europeo Simple realizzato in collaborazione con l’Associazione Approdi e STePS. «Il metodo adottato è quello della narrativa non verbale – puntualizza – Si divide in tre periodi: la fase della stabilizzazione che è molto lunga e impegnativa e ha l’obiettivo di ripristinare un senso di sicurezza che consenta loro di non sentirsi in pericolo e si fa con il sostegno di psicologi e psichiatri professionisti. Individuiamo a tal proposito un codice comunicativo che trasmetta sicurezza e fiducia».
Se la fase di stabilizzazione dura in media dai sei mesi ad un anno, la narrazione è più breve. «Consiste in due incontri della durata di un’ora ciascuno con l’utilizzo di immagini che possano aiutare le donne a ricordare l’esperienza vissuta con l’obiettivo di contestualizzarla nel qui e ora e metterle in una fase di sicurezza – spiega Jasmeen -. A seguire c’è la fase di integrazione con la società per iniziare a costruire il futuro. Per fare ciò vengono utilizzati tutti gli strumenti acquisiti durante le prime due fasi, si lavora su tutti i traumi emersi contestualizzandoli in un tempo passato per riuscire poi ad affrontare il presente e il futuro. Le risposte delle donne sono straordinarie – conclude – hanno avuto esperienze complesse, molto eterogenee tra loro, tutte hanno, e avranno, bisogno un sostegno psicologico. Per alcune ci vuole molto tempo, altre hanno completato il percorso in pochi mesi, ma è sempre un work in progress che varia a seconda delle donne che abbiamo davanti e siamo noi a doverci adattare dando loro gli strumenti di cui hanno bisogno».
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