Sono stati trovati nella lana di mammut, nelle mummie siberiane, nei lupi preistorici e nei polmoni di una vittima dell’influenza ritrovata sepolta nel permafrost dell’Alaska. I virus «zombie» rischiano di «resuscitare» a causa degli effetti dei cambiamenti climatici e dare il via a nuove epidemie o pandemie
Sono stati trovati nella lana di mammut, nelle mummie siberiane, nei lupi preistorici e nei polmoni di una vittima dell’influenza ritrovata sepolta nel permafrost dell’Alaska. I virus «zombie» rischiano di «resuscitare» a causa degli effetti dei cambiamenti climatici e, in questo modo, dare il via a nuove epidemie o pandemie. A lanciare un avvertimento è stato un team internazionale di ricercatori, provenienti dalla Russia, dalla Germania e dalla Francia, secondo i quali il rischio che particelle virali antiche rimangano infettive» è stato sottovalutato. E mai come oggi, che è la Giornata mondiale dell’ambiente, è bene ricordare che tutto quello che succede sul nostro pianeta può avere ripercussione anche sulla salute di chi lo abita.
Gli scienziati ritengono che «il rischio sia destinato ad aumentare nel contesto del riscaldamento globale, in cui lo scioglimento del permafrost continuerà ad accelerare», scatenando malattie che erano rimaste intrappolate nel ghiaccio sin dalla Preistoria. In uno studio pubblicato un po’ di tempo fa sulla rivista Viruses, genetisti, microbiologi ed esperti in geoscienze, hanno monitorato alcuni virus «zombie» resuscitati, descrivendo alcuni casi eclatanti che dovrebbero preoccuparci per il futuro.
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Alla fine degli anni ’90 il patologo svedese Johan V. Hultin ha trovato un deposito di RNA del virus dell’influenza del 1918 nei polmoni di una donna uccisa dal virus quasi 80 anni prima. Hultin aveva cercato intenzionalmente campioni di influenza che potessero aiutare i medici a capire meglio come combattere future pandemie. Ma la sua scoperta è stata una prima indicazione che i virus mortali possono essere conservati facilmente nel permafrost artico. Hultin ha riesumato il corpo di una grossa donna Inuit sepolta in una fossa comune di vittime dell’influenza vicino a un remoto villaggio fuori dalla città di Brevig Mission, in Alaska. Grazie al permafrost, una quantità sufficiente di RNA del virus dell’influenza è stata conservata così bene che i ricercatori hanno potuto sequenziare l’intero genoma del ceppo del 1918.
Estratto per la prima volta dal permafrost siberiano nel 2014, 30 metri sotto terra, l’antico Pithovirus sibericum è un virus quasi otto volte più grande di quelli che normalmente infettano l’uomo moderno. Gli scienziati francesi del Centro nazionale di ricerca scientifica dell’Università di Aix-Marsiglia (CNRS-AMU) hanno resuscitato lo «zombi» P. sibericum vecchio 30mila anni e poi hanno esposto a esso delle amebe contagiandole. E’ stata la prima volta che gli scienziati hanno visto un virus antico in grado di contagiare ancora.
Proprio come P. sibericum, gli scienziati hanno ritrovato negli stessi campioni di permafrost di 30mila anno fa anche il Mollivirus sibericum. Si tratta di un altro virus gigante che oggi non rappresenta una minaccia per l’uomo o gli animali, ma la sua vicinanza a P. sibericum ha lasciato gli scienziati preoccupati che il permafrost fosse pieno di agenti patogeni non morti. Ma gli scienziati non escludono che virus provenienti da antiche popolazioni umane (o animali) siberiane possano riemergere quando gli strati di permafrost artico si scioglieranno ancora di più a causa dei cambiamenti climatici.
Sia il Pandoravirus mammut che Megavirus mammut sono stati scoperti in un ammasso di ghiaccio vecchio 27.000 anni e nella lana di mammut rimasta congelata sulle rive del fiume Yana in Russia. Come gli antichi virus giganti del passato, P. mammoth e M. mammoth hanno dimostrato di essere in grado di uccidere le amebe. I ricercatori hanno scelto le amebe perché questi organismi unicellulari sono abbastanza vicini alle cellule eucariotiche simili a quelle umane e animali da fornire informazioni, ma non abbastanza vicine da rischiare di creare una nuova pandemia. Ma anche se entrambi questi virus non sono riusciti a infettare le cellule umane e di topo, i ricercatori pensano che sia necessario non abbassare la guardia.
Un antico parente del virus della peste suina africana, il Pacmanvirus lupus è stato ritrovato nell’intestino di un lupo siberiano «scongelato» risalente a 27mila anni fa. I resti del Canis lupus sono stati rinvenuti nello stesso sito del letto del fiume Yana dei due virus mammut. Come il resto di questi antichi virus di grandi dimensioni, P. lupus è ancora in grado di tornare in vita e uccidere le amebe, anche se è fuori gioco dal Mesolitico o dall’Età della Pietra.
Il vaiolo non ha bisogno di presentazioni. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, questa terribile malattia è stata ufficialmente debellata a livello globale nel 1980. Ma nel 2004, scienziati francesi e russi hanno trovato il vaiolo all’interno di una mummia siberiana di 300 anni, congelata nella tundra della Repubblica russa di Sakha. La mummia risale appartiene alla vittima dell’epidemia di vaiolo che si è verificata tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo nella regione della Siberia nord-orientale. Per gli scienziati questa scoperta ha un significato nascosto terribile: i virus possono essere resuscitati anche involontariamente e non stiamo facendo nulla per evitare tutto questo.
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