One Health 9 Maggio 2023 10:47

Crisi climatica, ne parliamo poco e male: «Esperti e scienziati hanno meno spazio delle aziende che fanno greenwashing»

«È la più grande emergenza, anche sanitaria, della nostra epoca» spiega a Sanità Informazione Giancarlo Sturloni, responsabile della comunicazione di Greenpeace Italia. «Abbiamo analizzato giornali, telegiornali e programmi tv: ecco i risultati…»

di Gloria Beltrami
Crisi climatica, ne parliamo poco e male: «Esperti e scienziati hanno meno spazio delle aziende che fanno greenwashing»

“Si parla poco e male di crisi climatica. Questo è un problema se consideriamo che per la comunità scientifica internazionale la lotta ai cambiamenti climatici rappresenta la più grande emergenza della nostra epoca storica.” A dichiararlo è Giancarlo Sturloni, responsabile della comunicazione di Greenpeace Italia, commentando ai microfoni di Sanità Informazione la pubblicazione del primo rapporto annuale sull’informazione dei cambiamenti climatici in Italia.

Analisi dei media

Realizzato in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia a partire da dati raccolti nel 2022, la ricerca di Greenpeace muove dall’assunto che l’informazione abbia un ruolo importante “nel favorire gli interventi necessari a mitigare il riscaldamento globale – si legge nell’introduzione – eppure, il clima trova ancora poco spazio tra le pagine dei principali quotidiani italiani e nei palinsesti delle più importanti reti televisive nazionali”. La ricerca ha quindi analizzato la copertura e le modalità di narrazione della crisi climatica. Per farlo, sono stati presi in esame i cinque quotidiani a maggior diffusione nazionale (Avvenire, Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, La Repubblica e La Stampa), i sette telegiornali trasmessi in prime time dalla televisione generalista (Rai1, Rai2, Rai3, Rete4, Canale 5, Italia 1, La7) ed anche sei programmi televisivi di approfondimento informativo trasmessi rispettivamente da Rai, Mediaset e La7.

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Attenzione alle tragedie

Se di emergenza climatica un po’ si scrive e si parla, per Sturloni non lo si fa quasi mai nella cornice narrativa corretta: “Analizzando i quotidiani abbiamo scoperto che ci sono in media circa due articoli al giorno che parlano di crisi climatica… Che non vuol dire siano articoli espressamente dedicati ad essa: anzi, la accennano, ma non parlano solo di quello. Sui telegiornali arriviamo invece a meno del 2% delle notizie”. La crisi climatica è stata citata dai media mainstream soprattutto da maggio a luglio, quando si sono verificati degli eventi metereologici estremi che facevano notizia di per sé: basti pensare al crollo del ghiacciaio della Marmolada, all’alluvione nelle Marche, oppure ai lunghi periodi di siccità estiva. Come spiega Giancarlo Sturloni, l’attenzione dei media nei confronti del surriscaldamento globale “si accende quando c’è un fenomeno che fa sembrare la crisi climatica una tragedia. Allo stesso tempo, però, solo un telegiornale su quattro faceva un esplicito collegamento tra quell’evento estremo e la crisi climatica”.

Chi spiega le cause della crisi climatica?

Un’informazione decisamente parziale, quella fornita dai media italiani messi sotto osservazione dagli studiosi, anche perché le cause del cambiamento climatico non vengono spiegate tanto quanto le conseguenze: “In Italia – continua Giancarlo Sturloni – si parla molto poco delle cause e ancora meno dei responsabili. Poche volte vengono citati i combustibili fossili, che sono stati scientificamente riconosciuti come la causa principale di questa crisi; quasi mai vengono citate le compagnie petrolifere ed altre aziende altamente inquinanti”. In effetti, dall’analisi dei dati raccolti emerge che poco più di un articolo su cinque spiega le cause della crisi climatica, mentre uno su tre ne descrive le conseguenze. E con i telegiornali la forbice cresce ancora: le cause sono citate solo nel 8,8% dei casi, le conseguenze nel 58,8%. Su 218 puntate televisive di approfondimento, le cause vengono menzionate nel 36,7% dei casi, le conseguenze nel 68,3%.

Conflitti di interesse

Il rapporto mette anche in luce un annoso conflitto di interessi. Si discute ormai da tempo del fatto che i maggiori investitori nel sistema mediatico italiano siano anche tra i principali responsabili del cambiamento climatico: agendo in qualità di editori, acquirenti di spazi pubblicitari, finanziatori di eventi di importanza nazionale, comprano quella che Sturloni definisce “la licenza sociale per continuare ad operare indisturbati”. E chiarisce: “Non abbiamo fatto questo studio per denigrare i mass media e i giornalisti… Capiamo quanto siano importanti questi finanziamenti e anche quanto sia difficile farne a meno dall’oggi al domani”. Eppure, esistono casi in cui questo è stato possibile. La redazione del britannico The Guardian, per esempio, dal 2020 non ospita più pubblicità di compagnie petrolifere e del gas, diventando così la prima grande redazione ad aver istituito il divieto assoluto di accettare denaro dalle società che estraggono combustibili fossili. Gli amministratori delegati avevano ammesso che le pressioni delle compagnie energetiche danneggiassero esplicitamente la causa ambientale. “Chiederemo a tutti i giornali italiani di seguire quell’esempio – ha aggiunto Sturloni ricordando questo fatto durante l’intervista – ci aspettiamo che i giornali più piccoli e sensibili al tema firmeranno questo impegno, altri non saranno in grado di farlo nell’immediato, ma speriamo di riuscire ad agevolare un sistema dell’informazione meno dipendente da queste aziende”.

Greenwashing: di cosa parliamo?

Dal suo punto di vista, per i media italiani l’anno scorso è stata “un’occasione mancata” per smascherare anche un altro fenomeno che danneggia la qualità dell’informazione in fatto di ambiente: il greenwashing. Questa strategia di comunicazione si basa su scelte aziendali in apparenza ecosostenibili allo scopo di occultarne l’impatto ambientale negativo. Diversamente da quanto accade oltreoceano, in Italia è difficile negare l’esistenza del cambiamento climatico e restare credibili agli occhi dell’opinione pubblica. Di qui la scelta di molte aziende inquinanti di raccontare una realtà alternativa.

Backlashing e la strategia del rinvio

“È più facile far sembrare il problema della crisi ambientale poco urgente, far pensare che la transizione energetica farà perdere posti di lavoro… Questo fenomeno viene chiamato backlashing in inglese e dentro ci sta anche il greenwashing. Non puoi essere più così esplicito nel negare il cambiamento climatico, ma puoi fare in modo che la transizione avvenga il più tardi possibile”. Attenzione, però, a non confondere questa forte influenza sul racconto della crisi climatica con l’infodemia. Per il direttore della comunicazione di Greenpeace Italia, infatti, il problema è diverso perché “i soggetti che più parlano di cambiamento climatico sono le aziende responsabili dello stesso. Questo è un paradosso, perché hanno più spazio rispetto agli esperti, agli scienziati, alle associazioni ambientaliste”. In effetti, dai dati raccolti emerge che la stampa quotidiana ha intervistato degli esperti solo nel 13% dei casi, mentre ha dato spazio a dichiarazioni di soggetti politici o istituzionali nel 31%. Anche nei telegiornali, i rappresentanti del mondo politico e delle istituzioni rappresentano la categoria di soggetti più intervistata (38,5%).

Analisi sui social network

A cambiare modo di raccontare la crisi climatica dev’essere l’intero sistema, politici compresi. Dall’analisi delle dichiarazioni rilasciate in televisione e dei post pubblicati su Facebook durante la prima fase della campagna elettorale (21 agosto – 4 settembre 2022), secondo Greenpeace Italia e Osservatorio di Pavia c’è stato “un sostanziale disinteresse per la crisi climatica” che è stata raccontata per lo più come crisi di approvvigionamento energetico, sia a destra che a sinistra.

Non è possibile perdere altre occasioni

Secondo Sturloni, i dati certificano la mancata “consapevolezza che la crisi climatica diventerà centrale. Il momento di agire era ieri, se aspettiamo ancora ci troveremo in una situazione drammatica”. In questo senso, la pandemia da Covid-19 avrebbe dovuto insegnarci che le emergenze esistono anche quando non si vedono. “Siamo abituati a reagire a rischi che percepiamo come imminenti con i nostri sensi. Con la pandemia – ricorda Sturloni – abbiamo reagito con più decisione quando abbiamo cominciato a vederne i morti. Con il cambiamento climatico non avviene la stessa cosa perché è tutto molto più diluito nel tempo. Abbiamo già perso tante occasioni, la mia preoccupazione è di non perderne altre. Non ce lo possiamo permettere”.

 

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