INCHIESTA | Approfondiamo un fenomeno ancora poco studiato che sta influenzando la vita di intere generazioni e che richiede politiche pubbliche adeguate. Descritto per la prima volta dalla American Phsychology Association ora è al centro di ricerche e analisi con il ruolo della comunicazione del rischio e del rapporto con i social network
“L’anno scorso ho vissuto un’estate molto difficile emotivamente a causa della siccità che ha colpito le nostre zone. Avevo un sonno molto leggero e spesso, durante la notte, non riuscivo a controllare i miei pensieri. Anche durante il giorno mi sentivo molto suscettibile… Se, per esempio, la mia vicina di casa innaffiava il giardino, sentivo dentro di me un’ansia talmente grande che dovevo chiudere le finestre. Questo sentimento si è protratto per tutta l’estate e molte volte mi sono resa conto di non riuscire ad immaginare un futuro sereno per me stessa”. A raccontarlo ai microfoni di Sanità Informazione è Ottavia, 34 anni, che come tante altre persone in Italia riconosce di aver sofferto di ecoansia almeno una volta negli ultimi anni. C’è anche chi come Francesca, 27 anni, confida di essersi sentita “vulnerabile, sopraffatta dagli eventi, scoraggiata” pensando agli effetti tangibili del cambiamento climatico nella sua città.
Risale al Marzo 2017 la prima definizione scientifica di climate anxiety, descritta dalla American Phsychology Association come “una paura cronica della rovina ambientale”. A scrivere il report era un team di esperti guidato da Susan Clayton, ricercatrice e docente di Psicologia al Wooster College, in Ohio, poi autrice principale dell’ultimo rapporto di valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). “Stanno crescendo le risposte psicologiche al cambiamento climatico, come il fatalismo, la paura, l’impotenza e la rassegnazione e la tendenza a evitare i conflitti nella vita quotidiana”, commentano gli autori. “Queste risposte ci impediscono di affrontare adeguatamente le cause fondamentali e le soluzioni per il nostro cambiamento climatico e di costruire e sostenere la resilienza psicologica”.
Sei anni dopo, l’ecoansia resta un ambito di ricerca accademica ancora poco conosciuto. Lo riconosce Inmaculada Boluda-Verdú, docente presso il Dipartimento di Salute Pubblica dell’università Miguel Hernández di Alicante, autrice di una ricerca pubblicata sulla rivista internazionale di psicologia ambientale lo scorso autunno: “Al momento, non c’è una definizione standard di ecoansia e termini diversi vengono usati in maniera intercambiabile in letteratura, come disagio ambientale o stress ecologico. […] Inoltre, le definizioni di ecoansia variano per quanto riguarda la sua concettualizzazione come patologica o non patologica. Per alcuni autori, l’ansia correlata alle minacce del cambiamento climatico può essere considerata una risposta normale. In alcune persone, infatti, l’ecoansia può innescare comportamenti ambientali sostenibili e, pertanto, non è necessariamente indicativa di una diagnosi clinica o patologica”.
È il caso, per esempio, di chi ha cambiato la propria dieta alimentare introducendo prodotti biologici, oppure ha iniziato a pianificare i propri spostamenti servendosi dei mezzi pubblici con maggior frequenza. In altre parole, mentre l’ecoansia mantiene una valenza di per sé negativa, in questi casi essa svolge comunque un ruolo funzionale. “D’altra parte, in altri, alti livelli di ecoansia possono causare un deterioramento della loro salute mentale, inclusi disagio, disturbi del sonno o disperazione che sono caratteristici dei disturbi d’ansia. Quando l’ecoansia è difficile da controllare e interferisce con il funzionamento quotidiano di una persona, è considerata clinicamente significativa”, conclude la professoressa Boluda-Verdú.
Uno studio ungherese condotto nel Gennaio 2020 da Csilla Ágoston-Kostyall, ricercatrice presso il gruppo interdisciplinare di Sostenibilità e Psicologia dell’Institute of People-Environment Transaction di Budapest, ha permesso di individuare sei diversi aspetti o categorie dell’ecoansia. Come prevedibile, la studiosa ha subito identificato la preoccupazione nei confronti del futuro e delle nuove generazioni, e l’empatia per gli animali ed i popoli che già stanno soffrendo gli effetti del cambiamento climatico. “Ci sono poi i conflitti con famigliari, amici o colleghi derivanti dall’adozione di attitudini o comportamenti diversi dai propri in rapporto alla mitigazione del cambiamento climatico. Nelle interviste, tali conflitti erano accompagnati da emozioni negative, spesso odio e frustrazione”. E ci sono anche persone più preoccupate dai cambiamenti che osservano nell’ambiente circostante: per la ricercatrice, gli attacchi di panico che si manifestano durante le ondate di caldo oppure l’insorgere di certe reazioni allergiche sarebbero da considerare all’interno di questa cornice. Infine, sarebbero da ricondurre ad una quinta e sesta categoria anche sintomi come il panico, l’ansia o la frustrazione che può pervaderci di fronte alla grandezza della sfida.
Dunque, per Ágoston-Kostyall e colleghi, è possibile che le persone provino sfumature diverse di ecoansia nel corso del tempo, ed ancora non è chiaro se possano esserci ulteriori variazioni da cultura a cultura. Nasce così la teorizzazione dei concetti di eco-colpa ed eco-dolore. Alcuni degli intervistati, infatti, hanno parlato della consapevolezza degli effetti del cambiamento climatico come di “un peso insopportabile” altri, invece, di essersi resi conto di saperne di più sull’argomento rispetto ad altre persone, e, come scrive la ricercatrice, “questo li ha fatti sentire responsabili di illuminare gli altri, di renderli consapevoli”. Infine, dai risultati raccolti emerge chiaramente come gli intervistati che hanno agito in qualche modo a livello locale (in risposta, appunto, alla propria ecoansia) siano anche riusciti ad accettare meglio i propri limiti e, dunque, a sentirsi meno insoddisfatti rispetto a coloro che in quel momento non erano andati oltre all’approccio globale del tema.
Ad aggiungere un ulteriore tassello nella riflessione sulla ecoansia è Charles Burke Kurth, ricercatore presso il Collegium for Advanced Studies di Helsinki: “C’è un’importante differenza nel modo in cui la sensazione d’allarme della ecoansia dirige la nostra attenzione. Nei casi di eco-dolore, eco-colpa ed eco-rabbia abbiamo emozioni che sono, in primo luogo, “ritrovate”, nel senso che gli individui tendono a preoccuparsi di cose che sono già accadute. L’ecoansia, al contrario, guarda principalmente al futuro, ovvero la persona tende a preoccuparsi delle decisioni o dei problemi che si devono affrontare attualmente o che sono all’orizzonte”. Proprio per questo, secondo Kurth, l’ecoansia sarebbe quindi un’emozione “proattiva”, capace di sollecitare nell’uomo un vero e proprio impegno cognitivo allo scopo di affrontare le difficoltà esistenti. Secondo il ricercatore, possiamo essere cautamente ottimisti: indagare sempre più questo aspetto della natura umana potrebbe portarci a capire come far sì che l’ecoansia venga percepita al momento giusto e nel modo giusto. “L’ecoansia è, nel complesso, un’emozione che può dare importanti contributi alla nostra agency ambientale e al nostro benessere”. Come ricorda Hua Wang, professoressa associata presso il Dipartimento di Comunicazione della University at Buffalo di New York: “Al momento, l’ecoansia non viene considerata un disturbo della salute mentale, né è accompagnata da linee guida formali che ne permettano una diagnosi clinica o un trattamento”. Quel che è certo, invece, è che siamo di fronte ad un concetto multidimensionale, la cui urgenza e complessità necessitano dell’adozione di un approccio interdisciplinare.
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Lo scorso 13 Giugno 2022, l’American Medical Association ha ufficialmente riconosciuto il cambiamento climatico come una crisi di salute pubblica. A sottolineare la delicatezza del tema è anche il European Climate and Health Observatory della Commissione Europea. Nell’ultimo rapporto pubblicato si stabilisce, infatti, che “gli effetti dei cambiamenti climatici sulla salute mentale rimangono in gran parte inesplorati rispetto [invece, ndr] agli impatti sulla salute fisica. Ciò è particolarmente preoccupante alla luce dell’aumento dell’esposizione della popolazione a ondate di calore, inondazioni o incendi, in quanto i casi di traumi psicologici derivanti da qualsiasi forma di disastro legato al clima possono essere 40 volte superiori a quelli delle lesioni fisiche”.
Purtroppo, in Italia la ricerca accademica su questo tema è ancora pressoché inesistente. Il primo studio (Agosto 2021) è stato condotto dal team di Matteo Innocenti, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università di Firenze e autore di un volume sul tema: “Il cambiamento climatico sta avendo un impatto sulla salute mentale globale” – si legge tra le considerazioni finali dello studio -. “Un fenomeno che dovrebbe crescere in modo significativo nei prossimi anni. Per questi motivi, è fondamentale disporre di una misura dell’ansia da cambiamento climatico in Italia al fine di affrontarne adeguatamente l’impatto psicologico. Questo studio dovrebbe essere seguito da una ricerca più ampia per valutare i livelli di eco-ansia all’interno della popolazione italiana”. “Mio fratello diciottenne è estremamente sensibile ai temi dell’ecologia e del cambiamento climatico… Mi domando quale sia il ruolo dei social network in questo ambito” confida Fabio, 29 anni. In effetti, la ricerca accademica si è poco soffermata sul ruolo che la dieta informativa può svolgere nell’insorgere dell’ecoansia. Basti pensare, per esempio, che molti studi hanno indagato la relazione causa-effetto tra ecoansia e fruizione di contenuti, ma solo nel marzo 2023 si è provato a capire se vi siano differenze tra la tipologia di medium fruito (radio, giornali, video, ecc…) e l’intensità di ecoansia provata dal pubblico (Loll L. et al., 2023).
Certamente, una maggior conoscenze dell’ecoansia e dei suoi effetti nelle persone apre a scenari inediti. Da un lato, infatti, questa può spingere le persone ad adottare comportamenti più sostenibili nell’ambito della propria vita quotidiana; dall’altro, invece, sta già spingendo alcune persone a mettere in discussione questioni delicatissime come la genitorialità. Racconta Aurora, 28 anni: “Ho cercato di agire dove potevo sulla mia vita per fare scelte più sostenibili ogni giorno, perché mi aiuta a ricordare che l’alternativa sarebbe possibile se tutti la volessimo. E il cambiamento climatico, per me come per molte mie amiche, è una delle ragioni per cui pensiamo di non fare figli”. Dunque, anche l’ecoansia potrebbe presto essere annoverata tra le ragioni che influiscono sul calo delle nascite. In Italia, dove in questi giorni si è molto parlato della soglia psicologica delle 400.000 nascite annuali, può darsi che il tema si affacci nel dibattito pubblico prima che in altre zone d’Europa, proprio poiché gli effetti del cambiamento climatico si stanno già mostrando con forza.
Ma l’ecoansia potrebbe giocare un ruolo di primo piano anche in decisioni più quotidiane come, per esempio, decidere dove comprare casa o se portare avanti un’attività di famiglia. Le persone sceglieranno comunque di sottoscrivere un mutuo trentennale per comprare casa in un territorio soggetto a forti siccità estive? E rileveranno le aziende agricole dei genitori pur dovendo affrontare momenti di razionamento dell’acqua? Abbiamo bisogno di avviare un dibattito pubblico sull’ecoansia e, più in generale, sugli effetti del cambiamento climatico per la salute mentale. È altrettanto importante che la ricerca scientifica acquisti vigore e analizzi l’ecoansia con una metodologia multidisciplinare. L’attuazione di politiche pubbliche adeguate in questo ambito, a nostro avviso, muove necessariamente da queste premesse.
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