Stagioni polliniche più lunghe e intense possono avere gravi conseguenze per le persone più vulnerabili. In particolare i bambini affetti da asma, ma soprattutto gli anziani con malattie respiratorie, in costante aumento e che oggi riguardano il 17% degli over 65 nel nostro Paese. È quanto emerge da uno studio pubblicato sulla rivista BMC Public Health che ha analizzato il legame tra pollini e mortalità tra gli anziani, correlata a problemi respiratori. I risultati sono al centro del congresso “Libero Respiro” in corso a Cetara, organizzato dalla Società Italiana di Allergologia e Immunologia Clinica (SIAAIC) e dalla Società Italiana di Aerobiologia, Medicina e Ambiente (SIAMA), in occasione della 18esima edizione della Giornata Nazionale del Polline.
Nello studio, valutando oltre 127 mila decessi registrati in Michigan tra gennaio 2006 e dicembre 2017, i ricercatori hanno esaminato quattro tipi di polline: di alberi decidui, cioè che perdono le foglie, come acero, betulla e pioppo, di sempreverdi, di graminacee e di ambrosia. “Utilizzando modelli informatici avanzati, gli autori dello studio – spiega Vincenzo Patella, presidente della SIAAIC e direttore UOC Medicina Interna dell’Azienda Sanitaria di Salerno – hanno osservato come livelli elevati di polline, dopo 7 giorni di esposizione, fossero correlati a un aumento dei tassi di mortalità negli anziani con problemi respiratori preesistenti. I risultati della ricerca hanno mostrato, infatti, che alti livelli di polline di alberi decidui e graminacee si associano a un rischio dell’81% più alto di mortalità per tutte le cause respiratorie croniche, dopo sette giorni di esposizione. Gli autori dello studio hanno inoltre rilevato che livelli elevati di polline di ambrosia sono collegati, dopo una settimana di esposizione, a un forte aumento, pari al 107%, della mortalità per BPCO, e del 116% per tutte le altre malattie respiratorie croniche”.
Secondo gli esperti, il problema delle allergia ai pollini rischia di esacerbarsi, considerando la tendenza alla diminuzione dei “giorni senza gelo”. Nel 2023 in Italia si sono registrati 10 giorni senza gelo in più rispetto alla media del trentennio 1991-2020. Un dato che colloca il 2023 al terzo posto tra gli anni con il minor numero medio di giorni con gelo dell’intera serie storica. A evidenziare questo valore è la Banca Dati Indicatori Ambientali dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), che misura il numero dei giorni in cui la temperatura minima dell’aria scende sotto gli 0°C, un parametro chiaro per monitorare l’evoluzione del clima e i suoi effetti, soprattutto per la salute respiratoria. “Alla luce dell’aumento delle giornate senza gelo, che evidenzia l’impatto crescente del riscaldamento climatico, si registra – dichiara Patella – un trend tutt’altro che rassicurante di stravolgimento del calendario dei pollini”.
“Meno giorni con temperature sottozero, danno più tempo alle piante di crescere e rilasciare i pollini che provocano allergie”, dice Patella. “Non solo anticipando la pollinazione primaverile di 25 giorni, ma anche prolungando quella autunnale di quasi tre settimane, con un aumento complessivo della durata della stagione dei pollini di oltre un mese e mezzo e un rilascio di carico pollinico sempre più abbondante. A causa del riscaldamento globale – continua – la stagione critica per le allergie è dunque destinata a diventare sempre più lunga e massiccia, con il risultato che i sintomi sono peggiori e più duraturi per gli oltre 10 milioni di italiani che soffrono di allergie, costretti a protrarre le terapie nel tempo”.
Lo evidenzia anche un’analisi diffusa negli Stati Uniti due settimane fa dall’organizzazione Climate Central, che ha valutato l’andamento delle temperature in 198 città americane per vedere come è cambiata la durata della stagione senza gelo dal 1970 al 2024. L’indagine ha rilevato che 172 città hanno registrato una media di 20 giorni in meno senza gelo rispetto al 1970, contribuendo a far sì che la stagione dei pollini fosse più lunga e precoce, con conseguenze più gravi per milioni di americani. “Il cambiamento climatico rende la stagione dei pollini non solo più lunga, ma anche più intensa a causa dell’inquinamento che intrappola il calore”, spiega Patella. “Livelli più elevati di CO2 nell’aria – continua– possono aumentare la produzione di pollini nelle piante, in particolare nelle graminacee e nell’ambrosia. A causa dei persistenti elevati tassi di inquinamento da CO2, secondo una ricerca americana del 2022, alla fine del secolo l’aumento della produzione di pollini potrebbe arrivare fino al 200%”.
Per proteggere la salute e ridurre al minimo gli effetti dannosi delle allergie stagionali, in un clima sempre più soggetto a cambiamenti estremi, gli esperti SIAAIC hanno messo a punto un decalogo. “Oltre a ridurre al minimo l’esposizione, controllando i report locali sulla qualità dell’aria prima di uscire – dice Patella – e limitando il tempo trascorso all’aperto e utilizzare filtri per purificare l’aria negli spazi abitativi, fondamentale è anche la gestione del verde pubblico per la riduzione della quantità dei pollini”. Tra i punti chiave: preferire piante che affidano agli insetti l’impollinazione e producono minori quantità di polline, ed evitare alberi come betulla, cipresso e ulivo; predisporre la falciatura e gestione del verde nelle ore notturne e nelle giornate poco ventilate; effettuare la potatura delle siepi prima della fioritura e prima del rilascio del polline.
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