Il trattamento tempestivo e la vaccinazione riducono il rischio. I ricercatori: «Anche se la pandemia volge al termine, il numero di individui che negli anni a venire soffriranno della sindrome post-Covid, eticamente, non ci consente di limitare la ricerca di base e clinica in questo campo»
Non esiste una sola forma di long-Covid, ma almeno quattro. Secondo i ricercatori di “Orchestra”, un progetto di ricerca coordinato dall’Università di Verona, le diverse manifestazioni cliniche di long-Covid sarebbero caratterizzate ciascuna da specifici sintomi e impatterebbero in modo totalmente differente sulla qualità di vita. Nel mondo si stima che circa 65 milioni di persone soffrano di long-Covid. I suoi sintomi sono innumerevoli, ma da qualche tempo c’è il sospetto «che possano avere una distribuzione a grappolo», scrivono i ricercatori.
Lo studio ha permesso di analizzare 1.800 pazienti per 12 mesi. Tra queste persone gli studiosi hanno identificato quattro differenti quadri clinici del long-Covid. La sindrome da affaticamento cronico è risultata essere la più frequente, con un’incidenza del 42%. È caratterizzata da stanchezza, mal di testa e perdita di memoria. La sindrome respiratoria, invece, rappresenta il 23% dei casi e i sintomi tipici sono tosse e dispnea. Diffusione quasi analoga (22%) della sindrome del dolore cronico: è caratterizzata da dolori ai muscoli e alle articolazioni. Infine, la sindrome neurosensoriale ha colpito l’11% del campione, con sintomi di alterazione del gusto e dell’olfatto. I risultati di “Orchestra” sono stati pubblicati sulla rivista eClinical Medicine.
I sintomi respiratori e la sindrome del dolore cronico sono quelli che hanno un peggiore impatto sulla qualità di vita. Inoltre, le donne hanno un rischio maggiore di dolore e fatica cronica e sintomi neurologici. La ricerca ha confermato, però, che il trattamento tempestivo con anticorpi monoclonali o corticosteroidi e la vaccinazione riducono il rischio di long-Covid. «Anche se la pandemia volge al termine, il numero di individui che negli anni a venire soffriranno della sindrome post-Covid, eticamente – concludono i ricercatori -, non ci consente di limitare la ricerca di base e clinica in questo campo».
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